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venerdì 25 giugno 2021

I “giovani” caregivers: intervista con Erika Borellini, studentessa universitaria caregiver

I “giovani” caregivers: intervista con Erika Borellini, studentessa universitaria caregiver di Sbragia Mariagrazia I “GIOVANI” Quella dei giovani adulti in Italia è una condizione “fantasma” non ricevendo alcuna attenzione da parte delle istituzioni se non facendo riferimento al “problema della disoccupazione” e alla più generale crisi del mondo del lavoro. La giovane adultità, comunque, sembra non destare nessuna attenzione particolare se non, ultimamente purtroppo, per l’incidenza delle morti sul lavoro che vede giovani e giovanissimi lavoratori morire perché non sufficientemente protetti. In psicologia gli studiosi concordano nel ritenere che la giovane adultità corrisponde al periodo di transizione tra adolescenza ed adultità, una fase questa che in Italia e nei paesi europei, si sta sempre più allungando temporalmente per motivi strutturali (lo studio e la formazione) ed economici (crisi economica ed assenza di lavoro). In questo frangente i “giovani adulti” si trovano in una situazione di sospensione esistenziale in cui non è possibile fare progetti, guardare avanti, e dare continuazione al racconto di sè stessi. Il “passaggio” alla vita e allo status di adulto comporterebbe generalmente il terminare gli studi, entrare nel mondo del lavoro, raggiungere l’indipendenza economica e abitativa e la costruzione di una nuova famiglia ma la “transizione prolungata” (o “famiglia lunga”) permette solo di restare confinati nella famiglia di origine senza la possibilità di allargarsi in modo indipendente. Nel modello nordico, invece, l’uscita dalla casa del giovane non corrisponde al “matrimonio”, come nel modello mediterraneo, ma all’abitare da solo in una casa indipendente magari ricevendo sostegno economico dai genitori (che collaborano per lo sviluppo dell’indipendenza del figlio). Si ritiene che questa condizione di sospensione dipenda dalla mancanza di capacità di separazione dei genitori dai figli ma, soprattutto, dalla mancanza di un vero e proprio pensiero progettuale verso l’indipendenza dei giovani che si apprestano a diventare adulti. Tale “assenza di pensiero” sociale, andrebbe a bloccare il necessario bisogno di distinzione dal programma emozionale della famiglia, e produrrebbe malattie psichiche come depressione, ansia, panico e disturbi del comportamento alimentare. I GIOVANI CAREGIVERS L’assenza di dati scientifici sulla condizione vissuta da molti giovani è sconcertante e riproduce a specchio la mancanza di attenzione rivolta a questa fascia di età dalla cultura e dalle istituzioni in particolare nel nostro paese. Di recente l’Unione Europea si è fatta promotrice del Progetto Me-We rivolto appunto ai “Giovani Caregivers” includendo le fasce di età dai 15 ai 17 anni, e quella dai 17 ai 25 anni. Si tratta del tentativo di sviluppare nei soggetti in età evolutiva una consapevolezza maggiore sul proprio ruolo offrendo loro strategie per sviluppare la capacità di resilienza e di autogestione. E’ rivolti ai soggetti che svolgono carichi di assistenza non massivi ma comunque importanti alla persona fragile, e che mantengono un rapporto costante con la scuola. Esistono però casi (sempre più frequenti) in cui l’assistenza alla persona fragile assorbe tutte le risorse del giovane, ed in questo caso in letteratura si parla di “maltrattamento” e “trauma”. Questa evenienza si pone nel caso in cui il ragazzo, che ha già bisogno di assistenza di per sé, non solo non è supportato da nessuno ma deve lui stesso supportare altri in modo necessario. Si parla poco di questa condizione “giovanile” ed è sempre più frequente per mancanza di risorse economiche e gestionali della famiglia. L’attenzione, quindi, di questi soggetti dovrebbe essere massima considerati gli aspetti di “sospensione esistenziale” citati nel paragrafo precedente. INTERVISTA CON ERIKA BORELLINI Ho il piacere di intervistare oggi Erika Borellini, studentessa di Ingegneria elettronica all’Università di Reggio Emilia. Ciao Erika, come sei diventata caregiver? All’inizio non sapevo di essere caregiver, ed è stato lungo per me il percorso verso l’autoconsapevolezza di esserlo… anzi, all’inizio non mi piaceva nemmeno essere chiamata così, perché qui in Italia il termine “caregiver” è sinonimo di “badante” o “domestica”, cioè una persona a cui sono richieste mansioni di pulizia e di igiene …mentre all’estero il significato può estendersi anche al medico o all’infermiera nel senso di “prendersi cura della salute della persona”. Io ho impiegato 6 anni a capire che cos’è un caregiver e l’evento chiave è stata la mia richiesta all’Università… Andiamo con ordine: tua mamma nel 2013 rimane gravemente colpita da un aneurisma cerebrale. Da allora tu e i tuoi familiari si prendono cura di lei anche con l’aiuto di un’infermiera. Ti laurei al corso biennale con 84/110, e manca 1 punto per l’accesso alla triennale, quando ad uno studente lavoratore ne vengono concessi ben 2. A questo punto fai richiesta all’Università e non ti viene concesso. Allora inizi una campagna mediatica per diffondere l’informazione ed il MIUR approva la tua richiesta e adesso puoi continuare gli studi… Sì, è così…ed in questo frangente ho capito, anche conoscendo gli altri caregivers, che siamo una tribù molte estesa e che dobbiamo unirci per portare la nostra voce dimenticata dalle istituzioni. Ricordo che in Italia si stima che i giovani caregivers siano il 2,8% della popolazione tra i 15 ed i 24 anni (dati ISTAT riportati nella campagna “ME-WE”), e che questa fascia di caregiver è “fantasma”, assolutamente non considerata e non vista socialmente. Sì, i “giovani” destano poca attenzione già a partire dal medico che sottostima i problemi di salute per la “giovane età”…ovvero si sottostima molto il lavoro usurante che il giovane deve svolgere a casa quotidianamente e non ci sono cenni di prevenzione… Senti Erika, nella tua esperienza, che cosa manca ad un caregivers per sentirsi tale a pieno titolo? che cosa ti è mancato in questi anni per sentirti un caregiver felice? Prima di tutto, le informazioni: avere un affiancamento medico ed infermieristico dove qualcuno ti dica subito dove e come mettere le mani sulla persona disabile, a partire dalla gestione igienico/sanitaria a casa (ad esempio, come girare la persona allettata per lavarla, come fare riabilitazione oro-faringea, etc……)… Una cosa che sembra una sciocchezza, e che non lo è affatto: come lavare i denti ad una persona cerebrolesa grave: dopo varie ricerche logopediche ho scoperto grazie ad un logopedista che il distretto oro-faringeo di questi pazienti è molto trascurata di solito, perciò ho iniziato a porre maggiori attenzioni all’igiene della bocca di mia mamma. Abbiamo dovuto girare tanto in Italia al fine di trovare personale specializzato in questo tipo di pazienti, perché per formazione non esiste un fisioterapista o un logopedista specializzato in problematiche neurologiche di un certo livello…. Per i pazienti di Alzheimer o di SLA, ad esempio, ci sono percorsi diagnostici ed assistenziali più definiti e rapidi. Questo è scioccante, lottare per avere informazioni necessarie al mantenimento in vita di un familiare malato costretto all’immobilità…immagino la tensione che avete vissuto in questi momenti… E’ stato un incubo, abbiamo passato momenti da incubo. Spesso i medici non ci credono quando diciamo che mia mamma mostra di comunicare con noi attraverso cenni dello sguardo o con parole pronunciate ovviamente con le sue difficoltà: anche questo discredito continuo, peggiora la comunicazione con i medici e alla fine non produce nessuna novità di intervento per mia mamma. Una volta è stato grazie proprio ad un terapista del dolore, capace di accogliere le risposte di mia madre, che è stato possibile capire dove aveva dolore da giorni: era una nevralgia del trigemino…. “Prendersi cura di qualcuno” non è semplice affatto: così come si danno informazioni sul diabete o sulla gastrite, allo stesso modo potrebbero essere date informazioni su come ci si prende cura di un paziente anziano o malato…sarebbe anche un risparmio notevole in termini economici per lo Stato… E’ giusto ciò che dici, condivido appieno. Ma ritorniamo un attimo alle cure: quindi, da ciò che mi dici, hai avuto problemi nel capire che cosa fare per tua mamma? Sì, all’inizio i medici si sono limitati alla diagnosi, ma non abbiamo avuto nessuna indicazione per quanto riguarda una possibilità di “riabilitazione”, intesa anche come semplice mantenimento in vita della persona: ad esempio, la nutrizione, che cosa dare da mangiare ad una persona allettata, e come (sondino o in modalità autonoma): è stato un calvario capirlo, ed alla fine ci siamo affidati maggiormente alle nostre forze, a ciò che mia madre rispondeva. Attualmente mangia da sola il cheese cake, possibilità che ci era stata assolutamente negata dai medici. Erika, che cosa ti spaventa di più oggi? Il mondo del lavoro: oggi sono studentessa e riesco ad organizzare l’assistenza di mia mamma tra lezioni ed esami, ma un domani se avrò un lavoro come farò ad assistere mia mamma che ha bisogno di un mediatore per essere capita e “tradotta” da chi non la conosce, soprattutto a livello medico. Questo è per me fonte di preoccupazione.

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