Siamo tutti Caregivers

martedì 19 ottobre 2021

Il problema del nostro tempo è che ci ostiniamo a cercare soluzioni individuali a contraddizioni sistemiche

🛑SQUID GAME COME e PERCHè PARLARNE IN CLASSE (primaria e secondaria) Squid Game è una seria sudcoreana di Netflix che in poche settimane è divenuta la serie Netflix più vista di tutti i tempi. Ad una società dilaniata dalla povertà viene proposto un gioco mortale: una serie di sfide imperniate sugli innocenti giochi dei bambini (es. 1 2 3 stella). Il montepremi è milionario, chi perde viene violentemente trucidato. Il "gioco della vita" si rovescia nel "gioco della morte". Vi propongo due letture (la prossima nel successivo articolo) 🌻LETTURA PER MENTI CRITICHE Perché questa trama piuttosto essenziale ha reso Squid Game un fenomeno globale? Perché SG coglie in pieno lo "spirito del nostro tempo". SG è il feroce mondo liquido dove tutti noi cerchiamo di rimanere a galla. Un po' come il vecchio gioco della sedia: al fermarsi della musica un giocatore rimarrà senza posto precipitando tra i loser (i perdenti, i rifiuti, gli scarti). SG ci legge dentro perché il mondo liquido è un mondo spietato che divide gli esseri umani in "WINNER" e "LOSER" imponendoci delle regole di ingaggio cruente e fratricide: - la fratellanza si rovescia in spietata competizione; - l'empatia in cieca indifferenza; - la solidarietà in una scelta da perdenti. SG incarna perfettamente un mondo senza comunità dove la "comunità dei cittadini" si trasforma nella "comunità dei giocatori": una comunità senza comunità in cui la promessa perversa è che "Ne vincerà solo 1" …quando in realtà "perderemo tutti". 🍀PROPOSTA di EDUCAZIONE CIVICA (scuola secondaria) Se lavorate alla scuola media dedicate a SG una lezione di educazione civica. Come? Nel metodo che io propongo la chiave sono le domande su cui "pensare insieme tra amici" come gli antichi filosofi. Ve ne propongo alcune: 1. Cosa ci racconta SG della nostra società? 2. La vita è un gioco competitivo tutti contro tutti? 3. La logica della competizione a prima vista sembra meritocratica (vince il più capace) ma quali ombre nasconde? 4 E se il loser fossi tu? 5.Cosa accade a virtù come l'amicizia, l'empatia, la cooperazione, la responsabilità e l'inclusone dei più fragili in una società modellata sul gioco competitivo alla SG? 6. Esiste un'alternativa ad una società del tutti contro tutti? 7. Se invece di combatterci unissimo le forze cooperando per un mondo migliore? Come potremmo fare partendo dalla vita in classe? 🍀PROPOSTA di EDUCAZIONE CIVICA (scuola primaria) Nel prossimo articolo spiegherò l'impatto emotivo di narrazioni cruente come SG su bambini e ragazzi. Alla primaria ometterei il riferimento a SG (che i bambini non dovrebbero vedere) ma proporrrei una riflessione sul gioco della sedia. Dopo il gioco vi consiglio di far sedere i bambini in cerchio facendoli riflettere su queste domande: 1. Il gioco della sedia è un "gioco giusto"? 2. Quando un gioco è giusto? 3. Cosa prova il giocatore che vince? 4. E quello che perde? 5.Un gioco in cui 19 giocatori su 20 perdono sentendosi tristi, arrabbiati, soli, inadeguati ed esclusi è davvero un gioco giusto? 6.Quali carezze d'empatia (parole gentili, piccoli gesti) possiamo donare al compagno escluso dal gioco? 7. Le situazioni ingiuste non devono essere accettate. Come potremmo riscrivere il gioco della sedia per renderlo più giusto e cooperativo? 🦿RIFLESSIONE FINALE Se conoscete il mio metodo sapete quanto io creda nel valore di una scuola cooperativa in cui, alla logica Squid Game dell'individualismo, si mostri giorno dopo giorno a bambini e ragazzi, che un mondo diverso è possibile... Come? Con una cooperazione del "prendersi cura con empatia" gli uni degli altri. 🚣Indignarci, arrabbiarci e lamentarci della brutalità del mondo liquido non basta. La nostra società avanza sempre più verso un modello ipercompetitivo e fratricida alla Squid Game. 📙Il grande sociologo Beck decenni fa ci aveva messo in guardia: "Il problema del nostro tempo (come in Squid Game) è che ci ostiniamo a cercare soluzioni individuali a contraddizioni sistemiche." Salvarci da soli non fa che alimentare la lotta tra winner e loser. E se ci fermassimo per cooperare e cercare insieme nuove soluzioni? E se si partisse a scuola? Se vuoi approfondire con un corso: "Didattica cooperativa" 👇 formazione@prospettivedidattiche.it Se vuoi approfondire con una lettura "Didattica cooperativa e classi difficili" (2020 Pearson) 👇 Perché alla logica binaria "winner/loser" di Squid Game esiste la terza via della cooperazione empatica.

domenica 17 ottobre 2021

Cura e Disabilità

II Edizione - a.a. 2020-2021 Lavoro di Gruppo “CURA & DISABILITA’” Ciancimino Rino Debbi Noemi Ginocchi Andrea Luschi Silvia Nastasi Elena Sbragia Mariagrazia Filosofia della “Care”: vulnerabilità, riparazione ed etica a cura di Mariagrazia Sbragia. La possibilità di essere tutti potenziali “disabili” ed anche “potenziali caregivers” non tocca minimamente la nostra società contemporanea progredita e tecnologicamente avanzata. La stessa parola “dis-abilità”, con desinenza minorativa, rimanda, nel nostro immaginario culturale ristretto, all'idea stereotipata della perdita di una o più capacità apprese o ad un qualche evento talmente negativo da scongiurare, senza accorgersi che questa condizione difettuale ci appartiene in realtà fin dalla nascita in qualità di neonati e che ha motivato in modo decisivo la nostra volontà di crescere e di progredire. La neonatalità, infatti, si configura come condizione di “dis-abilità” per eccellenza, essendo l'organismo appena nato incapace di tutte quelle facoltà, normalmente attive negli adulti intorno a lui, appena accennate nel suo repertorio genetico, che si andranno a sviluppare sempre di più se sollecitate adeguatamente dalle persone che lo circondano e, più in generale, dall’ambiente. Questa condizione di “disabilità naturale” ritornerà poi con modalità diverse attraverso la vecchiaia, e quelle abilità apprese con così tanta passione e dedizione si sgretoleranno pian piano sotto la spinta del depauperamento naturale del nostro organismo. Stupisce che tutti questi passaggi esistenziali inevitabili e irrimediabilmente evidenti che caratterizzano non solo la nostra esistenza ma quella di tutti gli esseri viventi su questa Terra, sembrano svanire nel nostro humus culturale occidentale, in uno strano processo di oblio: sebbene tecnologicamente avanzata, la nostra società risulta paradossalmente lenta ed arretrata nella “riparazione” di ciò che non va subito a buon fine e che non riguarda uno schermo ma una vita reale come può essere quella di una Persona, di un animale o, per estensione, perfino dell'Ambiente in cui viviamo. Siamo nel 2021 ed ancora questa possibilità di incontrare un imprevisto sulla nostra strada, che non implica necessariamente il non raggiungimento dell'obiettivo desiderato, non venga compresa nella nostra società in cui tutto è pensato per avere un percorso “liscio” e “lineare”. Al contrario, nel contesto libero da strutture organizzate che noi definiamo lontanamente “Natura”, possiamo constatare come la probabilità dell'intervenienza del “non-previsto”, sia puramente “normale” e che giochi addirittura un ruolo chiave nell'evoluzione delle specie e della vita. La rimozione che andiamo operando ad ogni livello sociale ed in ogni contesto della nostra “Natura” umana, si manifesta nella mancanza dei servizi, delle attività e delle attenzioni che dovremmo rivolgere a chi “non fila liscio”, a chi si ferma, a chi ristagna senza aver possibilità di procedere oltre a causa di un'impossibilità avvenuta “per caso” e non di certo voluta o desiderata. Le difficoltà economiche, le difficoltà psicologiche e sociali, le difficoltà di integrazione culturale, le malattie, sono spesso motivi frequenti dei blocchi che caratterizzano a livelli diversi ed in momenti diversi, le nostre esistenze come Persone; ma in generale ciò che caratterizza questa società è la dimenticanza della probabilità dell'esistenza delle difficoltà, e la rimozione del concetto secondo cui non sia tutto così “facile” ed immediato come ce lo immaginiamo. Il problema che sorge, infatti, in questo evitamento delle difficoltà è la scarsa capacità di problem-solving, una mancanza di studio su questa condizione “normale” della nostra vita, ed anche la mancanza di consapevolezza della nostra estrema debolezza sociale, incapace di “auto-rigenerazione” nelle difficoltà, e di “mantenimento vitale” attraverso l'utilizzo di tutti gli strumenti a nostra disposizione (che sono moltissimi). La posta in gioco è molto alta e riguarda che cosa vogliamo fare della nostra Salute, non quella idealizzata come falso sé attraverso l'adesione di comportamenti esterni ai nostri reali e sentiti bisogni. Nella storia del pensiero occidentale, il concetto di Cura rimane tacito o scarsamente valorizzato sullo sfondo del dibattito generale. Se oggi abbiamo la capacità invece di discuterne e di riconoscerne l'importanza, è principalmente grazie al pensiero di genere che, attribuendo alla “Cura” un ruolo fondamentale per l'evoluzione della vita, riporta il tema al centro della discussione a partire dagli anni '80 del XX secolo fino ad oggi, tracciando un filone di studi e ricerche che delineano una vera e propria “Teoria della Cura” in senso profondamente etico. In questi ultimi decenni abbiamo registrato un boom di ricerche in campi disciplinari diversi dalla filosofia morale alla pedagogia, dalla psicologia, alle scienze politiche, dalla sociologia alle scienze infermieristiche, alla scuola...che hanno declinato il concetto di Cura in ambiti concettuali diversi, aumentando così la portata della sua definizione complessa. Questa complessità ha contribuito all'emergere di una chiarezza sul concetto di “Care” che ci aiuta oggi nello sviluppare una sua maggiore consapevolezza, ovvero ad operare nei vari campi con più precisione ed efficacia. In origine, la riflessione del pensiero femminile sulla Care parte dall'osservazione della relazione di vulnerabilità madre-bambino, quello spazio intimo e privato che tutti abbiamo conosciuto come destinatari della Cura nell'Infanzia da parte di un adulto, e che solo il pensiero femminile ha riportato al centro della discussione come tema degno di essere analizzato e studiato in modo primario. La “vulnerabilità” è stata vista inizialmente in quella normale condizione esistenziale di “figliolanza” che tutti abbiamo provato da bambini e di cui poco abbiamo ricordo, quando siamo venuti al mondo non per una nostra volontà, e in cui le “sorti” della nostra infanzia sono state stabilite dall'operare degli adulti da cui dipendevano. La dimenticanza di questa condizione di vulnerabilità e dipendenza passiva ha contribuito, per le teoriche storiche della Cura, all'emergere dell’ideale falso di umano sovrano, autonomo, autosufficiente, vincente; inoltre, con lo sviluppo dell'industrializzazione e della tecnologia, le due parole hanno assunto significati sempre più negativi di perdita e mancanza, fino all'identificazione di esse con specifiche categorie sociali come anziani fragili, bambini e disabili (Casalini, 2015). La consapevolezza della vulnerabilità e dipendenza sane, incarnate e positive, è stata riportata in luce dal pensiero femminile, ed oggi queste teorie femminili hanno guidato nel ripensare ad un concetto di autonomia sano, spogliato da ogni ideale (falso) di assolutezza e di inconsistenza. La Cura non è solo assistere una persona particolarmente “vulnerabile” come un bambino o un anziano o un disabile, ma è assistere un qualsiasi “altro” che si trovi nella condizione di bisogno-altro-da sé, ovvero una condizione in cui l'aiuto dell'altro si rende necessario in quel preciso momento: la Cura inizia da questo avvicinamento perché basato su un profondo concetto di “riparazione”. Come affermano autrici femminili più moderne, la Cura fa parte primariamente della nostra specie in quanto “umana” ma è diffusa in tutte le altre forme di vita essendo “una specie di attività che include tutto ciò che facciamo per mantenere, continuare e riparare il nostro 'mondo' in modo da poterci vivere nel modo migliore possibile. Quel modo include i nostri corpi, noi stessi, il nostro ambiente, tutto ciò che cerchiamo di intrecciare in una rete complessa a sostegno della cura” (Brotto, 2013). L'esigenza di Cura di questa visione comporta un'assunzione di responsabilità civica rivolto a tutto ciò che l'incuria umana distrugge, anche l'Ambiente, facendosi portatrice di un impegno etico nei confronti delle generazioni future. Heidegger diceva che “ognuno e’ quello che fa e di cui si cura”, perciò ne consegue che il nostro essere è concretamente il risultato di ciò che costruiamo con quelle cose che riusciamo a cogliere nella relazione attivata nel nostro agire quotidiano, e che si riassume in ciò che fa bene (che cerchiamo sempre di perseguire), e ciò che riconosciamo come nocivo (e nel quale ci imbattiamo sempre). “Se abbiamo cura di certe idee, la nostra struttura di pensiero sarà’ modellata da questo lavoro, nel senso che la nostra esperienza mentale poggerà su quelle che abbiamo coltivato e risentirà della mancanza di quelle che abbiamo trascurato; se ci prendiamo cura di certe cose, sarà l’esperienza di quelle cose e del modo di stare in relazione a esse a strutturare la nostra esistenza. Se ci prendiamo cura di certe persone quello che accade nello scambio relazionale con l’altro diverrà parte di noi. Della cura si può pertanto parlare nei termini di una fabbrica dell’essere”. (Mortari, 2017). Queste parole esplicano ancora di più’ il concetto di vulnerabilità’ nella nostra condizione primaria di esseri viventi nati non-formati, “mancanti” in partenza, in cui la relazione di dipendenza e cura diventa ontologicamente necessaria alla formazione ed allo sviluppo di quella determinata “forma” che e’ la vita. La Cura è necessaria per vivere perchè non è un soddisfare incondizionatamente le richieste dell’altro, quanto un soddisfare i bisogni dell’altro seguendo una direzione buona per il suo sviluppo. Detto in altri termini la “madre buona” non è colei che eroga incondizionatamente tutto ciò che il bambino richiede, ma è quella che offre esperienze nuove al bambino in modo che lui stesso sia sempre più capace di soddisfare i suoi bisogni di domani. La Cura non è erogazione di sostanza quantitativamente intesa, quanto un insieme di attività concertate volte a comprendere i bisogni della persona e ad orientare gli intenti verso la direzione giusta, affinché il suo percorso non prenda una forma “a caso” ma la sua. E’ per questo motivo che la riflessione sulla Cura è necessaria, perché l’agire operativo della Cura non è un lavoro “casuale” ma segue necessariamente una precisa logica del “far bene” alla vita, “far bene” che l’uomo ricerca e tenta di chiarire attraverso analisi scientifiche e studi. La Cura, in altri termine, è necessariamente etica perché rivolta a dare una “buona” forma alla vita secondo canoni scientifici di ricerca: chi la pratica, quindi, è formato (o dovrebbe esserlo) sul ruolo di responsabilità che riveste nel prestare cura all’altro, una responsabilità che è civile nella misura in cui la persona che presta aiuto è consapevole delle sue capacità come dei propri limiti, e dichiara la sua disponibilità disinteressata in modo che l’altro bisognoso possa contare su di lui. L’Etica nella Cura si realizza quando questo “dare” è privo dell’attesa di un ritorno: la Cura per “essere buona” non deve implicare la possibilità di un danno alla persona, ma l’operato deve seguire una precisa teoria basata sulla necessità e sul sapere, un sapere particolare che rivoluziona completamente il modo ordinario di pensare e vivere oggi. Nei prossimi articoli vedremo come la lente di ingrandimento “antropologica” analizzi il fenomeno della diversità da cui il tema della Cura si origina inevitabilmente, e come la “teoria della Cura” potrebbe avere una realizzazione concreta in ambito museale, educativo e nelle reti dei servizi sociali. Infine, il capitolo si conclude con un accenno allo stato attuale del Diritto alla Cura così come è avanzato dal Disegno di Legge del Caregiver in Italia. Antropologia della “Care”: disabilità, anomalia, avversione e stigma a cura di Elena Nastasi. L'antropologia è la disciplina che si occupa di studiare l'umanità e il modo in cui le comunità si organizzano in tutti gli aspetti della vita. Il focus perciò è concentrato su tutto ciò che è manifestazione dell'azione umana, sia essa consapevole o inconsapevole e di conseguenza indaga le ragioni per le quali un gruppo sociale decide di agire e di organizzarsi in una certa maniera e non in un'altra. La cultura, quindi, intesa come l'insieme degli aspetti dell'esperienza umana che includono status, religione, legge, stigma e devianza (solo per dirne alcuni), rappresenta il terreno d'interesse principale di tale disciplina. L'antropologia si è interessata alla disabilità relativamente di recente e uno dei primi studi è da ricondurre a Ruth Benedict nel 1934, la quale pubblicò un'opera in cui vengono messe a confronto le diverse concezioni dell'epilessia. Negli anni Quaranta l'interesse rimase ancora scarso e concentrato perlopiù sulle altre culture come dimostrano i lavori di Jane e Lucien Hanks del 1948, in cui si analizzano i fattori sociali che influenzano lo status delle persone con disabilità nella cultura asiatica, pacifica, in alcuni popoli africani e in quella dei nativi americani. Negli anni Cinquanta invece Margareth Mead, allieva di Ruth Benedict, sosteneva che lo studio di carattere nazionale americano doveva includere tutti gli americani, compresi quelli con disabilità. Questa prospettiva permise di includere le persone con disabilità all'interno dell'indagine antropologica per comprendere appieno la natura umana. Il passo successivo avvenne durante gli anni Sessanta e Settanta, quando i movimenti per i diritti dei disabili cominciarono ad avere una visibilità maggiore e per tal motivo si diffuse un più ampio interesse verso l’antropologia medica e quella culturale. Sono anni di esplorazione in cui la disabilità cominciò ad essere scandagliata sotto una prospettiva che utilizzava descrizioni neutrali, che potessero essere applicate in modo generale a tutte le culture o a tutti gli ambienti sociali. In breve, il tema della disabilità venne trattato secondo un approccio esterno che dagli antropologi è definito etico. Al contrario alcuni antropologi, come Frank in Venus of Wheels, ad esempio, predilissero un approccio più interno, che tenesse conto sia della personale percezione della disabilità da parte del soggetto sia dei diversi fattori esterni che concorrono alla comprensione e alla concezione della disabilità. Si indagava, perciò, la disabilità attraverso l'approccio detto emico. Negli anni Novanta l'interesse per la disabilità presso gli studiosi di antropologia continuò crescere anche grazie al successo del film "Elephant Man" e al lavoro pubblicato nel 1990 dell'antropologo Murphy, The Body Silent, destinato a divenire un classico dei Disability studies. Murphy, direttore del dipartimento di Antropologia alla Columbia University, era al culmine di una brillante carriera da antropologo culturale quando, a causa di un tumore spinale con lentissima progressione, non divenne prima claudicante, poi paraplegico e infine tetraplegico. Fu allora che studiò e descrisse la sua malattia e la sua condizione. Un altro importante lavoro, scritto da Ingstad & White dal titolo Disability and Culture, vede la luce nel 1995. In questo testo gli autori chiedono all'antropologia di ampliare lo studio della disabilità per dare maggiore enfasi all'individualità e agli approcci fenomenologici piuttosto che sulle tradizionali tecniche di antropologia medica. Questo importante volume viene citato in ogni articolo e libro che tratta di disabilità dal 1995. Nonostante vi sia una forte critica verso l’approccio medico alla disabilità, l'antropologia culturale e i disability studies devono molto all'antropologia medica, quest'ultima infatti rappresentò un effettivo primo contatto e contribuì soprattutto dando una prima definizione dei termini. I primi studi perciò avevano una prospettiva di tipo biomedico e intendevano la disabilità come qualcosa da "curare", ciò, come pare chiaro, ha per diverso tempo limitato la prospettiva sulla disabilità, vista più che altro come deficit di qualcosa, una "abilità mancante" senza considerare l'ambiente circostante e la società all'interno della quale il soggetto si muove. In breve, l’antropologia culturale intende trattare e spiegare la disabilità scostandosi dall’approccio medico e avvicinandosi il più possibile a quello sociale e ambientale dell’individuo. Per far ciò bisogna partire dalla constatazione che delle differenze fisiche o comportamentali sono riconosciute in tutte le comunità e tale riconoscimento comporta delle conseguenze sociali. E' di fondamentale importanza chiarire i contesti, le conoscenze e le risposte nello studio di queste differenze. Per lo studio comparativo e interculturale della disabilità gli studiosi hanno spesso fatto affidamento sul concetto di anomalia elaborato da Mary Douglas, la quale intende l'anomalia come qualcosa "fuori posto", come ogni manifestazione fisica o comportamentale che si colloca al di fuori dell'ordinario. Ciò non significa necessariamente che le persone che manifestano certe differenze riconosciute verranno necessariamente stigmatizzate o viceversa considerate sacre. Ingstad (1995) osserva che la disabilità fisica o mentale non determina necessariamente lo status di una persona, spesso infatti sono i legami familiari e di parentela e la competenza nello svolgere autonomamente alcuni compiti a farlo. Nelle isole Caroline in Micronesia ad esempio, Marshall (1996) evidenzia che persone con compromissioni fisiche, siano esse acquisite o presenti dalla nascita, non vengono considerate disabili a meno che non vi sia l'incapacità di sentire o parlare, cioè l'incapacità di manipolare la cultura e di partecipare alla vita sociale della comunità. In Cina, invece la capacità di essere di essere attivi e autosufficienti nella vita pubblica è molto apprezzata. L'enfasi confuciana combinata alle idee di sviluppo nazionale trasmutano l'imperfezione corporea in significato sociale e uomini e donne con difficoltà a deambulare fanno esperienza di discriminazione. In questo caso, credenze culturali, aspettative sociali e di genere e persino l'economia concorrono e contribuiscono alla creazione di un'identità basata su una differenza corporea percepita negativamente (Shuttleworth, 2004). Diversa è la situazione in contesti meno industrializzati, in cui lo stigma viene applicato per altri parametri rispetto a quelli prima evidenziati: presso gli Shona dello Zimbawe ad esempio, come riferisce Burk, i bambini a cui spuntano prima i denti nell'arcata superiore sono considerati gravemente disabili e questo ha conseguenze per tutta la vita. Talle (1995) invece sottolinea che non sempre l'integrazione è la risposta. Tra i Masai infatti i bambini con disabilità vengono trattati esattamente come gli altri, dato lo stesso cibo e benedizioni rituali. Tuttavia, la mancanza di un trattamento maggiormente attento verso il soggetto con disabilità spesso ne provoca la morte. In altri casi, come presso i Quechua delle Ande boliviane i ciechi vengono considerati in grado di vedere l'invisibile e quindi vengono loro attribuiti dei poteri (Rosing 1999). Molte differenze corporee e comportamentali riconosciute come anomale in alcune società non rivestono alcun ruolo per quella europea, quindi il valutare una determinata caratteristica fisica o comportamentale come anomalia dipende da parametri, concetti e indici etnofisiologici ed etnopsicologici. Il modo in cui una società vede l'integrità biologica e fisica contribuisce all'integrazione o all'esclusione di un soggetto. Vi sono perciò tre possibili risposte all'anomalia: la prima, è che gli individui vengano integrati all'interno della comunità in virtù della cosmologia o per altri valori che si concentrano sulla coesione del gruppo; la seconda risposta può vedere una comunità operare un esclusione o emarginazione di vario ordine e grado o infine può essere riservato a questi individui un ruolo sacro. Tale schema è ovviamente un'esemplificazione e ha come obiettivo quello di spiegare la disabilità allontanandola dal suo originario significato biomedico e di avvicinarla ad una prospettiva di tipo socioculturale. Un altro approccio tentato per lo studio della disabilità si rifà a tre concetti cardine per l’antropologia: devianza, liminalità e stigma. Il primo termine, che in questo caso verrà usato col significato di tutto "ciò che si trova fuori dalla norma", sottolinea già la sua intrinseca relatività e interattività . Bisogna, infatti, stabilire cosa è la norma, chi è che la stabilisce e in base a cosa ci si trova nella norma o al di fuori di essa. I corpi dei disabili sono stati tradizionalmente considerati devianti poiché si allontanano dalla norma e richiamano lo stigma attraverso tale devianza (Stiker, 1999) L'antropologo disabile Murphy ad esempio descriveva le persone disabili come sovvertitori “dell'ideale americano" poiché le restrizioni dei loro corpi, delle loro circostanze o delle loro abilità minavano l'indipendenza, l'autorealizzazione e l'autonomia personale, considerati concetti cardine dell'essere americano (Murphy, 1990). Con la nozione di liminalità, in antropologia ci si riferisce al momento di transizione, caratterizzato da ambiguità, fra un ruolo o uno status sociale e un altro tipico dei riti di passaggio. L’antropologo Murphy ha preso in prestito il concetto di liminalità dallo studio dei riti di passaggio per spiegare la disabilità acquisita, infatti egli spiega il suo processo verso la disabilità come l'attraversamento di una serie di riti di passaggio che lo spogliano del suo status sociale originario e lo costringono ad uno nuovo. Le persone con disabilità possono sperimentare uno stato di liminalità esteso o addirittura perpetuo a causa della confusione dei ruoli e della mancanza di accettazione da parte degli altri. Alcuni non accettano l'identità liminale che viene loro assegnata dalla società e potrebbero creare la propria cultura della disabilità per supportare e informare altri sulla loro esperienza (Murphy, 1990). Lo stigma, infine, è un’avversione verso una caratteristica fisica o comportamentale considerata dalla comunità fuori dalla norma, perciò deviata. In definitiva il campo dell'antropologia ha dato significativi contributi alla comprensione della disabilità. Le teorie dell'antropologia medica, sociale e culturale hanno ampliato il discorso pubblico e accademico sulla disabilità, hanno fornito un apparato teorico ed empirico affermando che la disabilità può essere considerata un marcatore culturale e che le persone con disabilità possono considerarsi come un gruppo con una differente cultura rispetto al resto della società. Gli antropologi, inoltre, hanno rimarcato come la disabilità sia un costrutto sociale: essa infatti non dipende tanto dal grado di funzionalità persa, piuttosto è definita dagli standard etnobiologici ed etnopsicologici della società in cui si vive(Inghstad & White, 1995). Come risultato la disabilità è vista meno come una limitazione di qualcosa e più come la percezione di pregiudizi derivanti dal resto degli individui "normodotati". Essa è una categoria profondamente relazionale, plasmata da condizioni sociali che escludono la piena partecipazione nella società. E' quindi il risultato di una cattiva interazione fra una persona con una funzionalità compromessa e il suo ambiente sociale o fisico. Ad esempio, la presenza o l'assenza di rampe cambia profondamente l'inclusione di persone che utilizzano la sedia a rotelle nella vita pubblica. Il modello sociale implica una critica fondamentale della medicalizzazione nel definire e categorizzare soggetti "non normali". La “Care” nel museo: barriere, accesso e mediazione a cura di Andrea Ginocchi. La care (cioè la cura) nei confronti delle persone con disabilità e di coloro che se ne occupano è un tema che trova spazio, sotto forma di accessibilità e servizi, anche nei musei e nei luoghi della cultura in generale. L’accesso al patrimonio culturale è un diritto umano fondamentale, come ci ricorda fin dal 1948 la Dichiarazione universale dei Diritti dell’Uomo (art. 27) e negli ultimi cinquant’anni il tema si è fatto strada nella società in maniera sempre più incisiva, riguardando discipline e ambiti molto diversi fra loro (architettura, psicologia, filosofia, museologia, tecnologie dell’informazione e comunicazione, etc.): anche i luoghi della cultura sono parte integrante di questa “rivoluzione” sociale, infatti si sta delineando, sia da parte delle istituzioni che degli operatori del settore, una presa di coscienza sempre maggiore riguardo a questo tema. Il diritto a un godimento universale del patrimonio culturale, di cui si riconosce la grande valenza identitaria e di coesione sociale per l’Europa, è un tema che è stato trattato anche dal Congresso svoltosi a Faro (Portogallo) dal Consiglio d’Europa il 27 ottobre 2005. All’art. 12, Accesso all’eredità culturale e partecipazione democratica, si evidenzia la necessità di «promuovere azioni per migliorare l’accesso all’eredità culturale, in particolare per i giovani e le persone svantaggiate, al fine di aumentare la consapevolezza sul suo valore, sulla necessità di conservarlo e preservarlo e sui benefici che ne possono derivare». L’anno seguente, nel 2006, la convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, ha ribadito il ruolo chiave dell’accessibilità e ciò ha rinvigorito l’attenzione internazionale sul tema. La care emerge di riflesso anche all’interno della più recente definizione di Museo, coniata dall’International Council of Museums (ICOM) il 24 agosto 2007, definizione a cui oggi si fa riferimento e che individua gli scopi più ampi ed etici dell’istituzione: «Il museo è un’istituzione permanente, senza scopo di lucro, al servizio della società e del suo sviluppo, aperta al pubblico, che effettua ricerche sulle testimonianze materiali ed immateriali dell’uomo e del suo ambiente, le acquisisce, le conserva e le comunica e specificatamente le espone per scopi di studio, educazione e diletto». La definizione di ICOM è stata poi acquisita in toto dalla normativa italiana con Decreto ministeriale MIBACT 23 dicembre 2014 che ha aggiunto un’importante integrazione finale: «promuovendone la conoscenza presso il pubblico e la comunità scientifica», in un’ottica di sempre maggior dialogo e condivisione dei saperi con tutta la comunità. Negli ultimi anni si sono venute a creare due posizioni riguardo all’accessibilità: quella di coloro che ritengono che l’accessibilità sia un diritto specifico delle persone con disabilità e quella, invece, di chi intende l’accessibilità come strumento per i diritti umani di tutti. Da ultimo, comunque, ha preso sempre più campo la convinzione che l’accessibilità non sia un diritto specifico delle persone con disabilità, ma uno strumento per l’attuazione e l’osservanza dei diritti umani di tutti, specialmente delle persone a rischio di emarginazione sociale, come disabili, anziani, migranti e minoranze linguistiche. Inoltre, si è passati sempre più a inquadrare il tema dell’accessibilità non più solo secondo il modello medico (che considera la disabilità come una condizione vissuta dal singolo), ma secondo il modello sociale (in cui lo stato di disabilità viene considerato come il risultato che nasce dall’interazione fra la condizione del singolo e le risposte attuate dalla società al suo stato di disabilità). Bisogna sottolineare poi, che gli strumenti normativi per molto tempo hanno affrontato il tema dell’accessibilità semplicemente come sinonimo di abbattimento o eliminazione delle barriere architettoniche: si veda, ad esempio, il D.M. 236/89, che equipara l’accessibilità alla sola possibilità di raggiungere e godere degli spazi. Mentre dal 2008, con le Linee guida per il superamento delle barriere architettoniche nei luoghi di interesse culturale (D.M. del 28 marzo 2008) si è iniziata a far strada, seppur ancora di riflesso, l’idea che l’accessibilità abbia un ruolo importante nella qualità della vita di tutti. Tale cambiamento è improntato alla filosofia del Design for All, secondo cui nella progettazione bisogna tenere presente le necessità di tutto il pubblico, nelle sue varie declinazioni: dunque una progettazione di soluzioni rivolte non solo alle persone con disabilità, ma anche al maggior numero di persone possibile. L’analisi svolta recentemente riguardo a quelle che possono essere considerate barriere all’accessibilità, ha prodotto una varietà di risposte che ha integrato il concetto di barriera architettonica. Sono stati individuati come elementi di ostacolo anche le barriere economiche, cioè il costo del biglietto di ingresso, per quanto riguarda le famiglie e gli anziani. Le barriere sensoriali riguardano soprattutto le persone ipovedenti o cieche e quelle sorde. Per quanto riguarda gli ipovedenti, naturalmente possono essere di ostacolo gli strumenti didascalici dei musei scritti con caratteri troppo piccoli o poco contrastati e la scarsa illuminazione delle sale. Per i ciechi sono necessari invece degli strumenti più specifici come gli apparati didascalici in braille, mappature del museo in rilievo e, dove possibile, riproduzioni delle opere da poter toccare. La disabilità uditiva gode di minor attenzione, per quanto, invece, anche le persone sorde incorrano in alcune difficoltà durante la visita ad un luogo culturale: ad esempio, non possono usufruire delle audioguide, delle visite guidate canoniche, di dispositivi multimediali privi di sottotitoli, inoltre sia i sordi segnanti, che gli oralisti hanno bisogno di maggior tempo per compiere una visita guidata, in quanto devono prestare attenzione alla guida e allo stesso tempo ammirare le opere esposte. Un particolare tipo di ostacolo, di recente insorgenza, è quello delle barriere tecnologiche: i nuovi allestimenti museali, infatti, si avvalgono, dove possibile, di dispositivi didascalici tecnologici i quali, seppur molto apprezzati dai giovani, possono essere scoraggianti per il pubblico più anziano e poco abituato all’uso di touch screen, tablet, smartphone, QR code, etc. Fra le barriere più difficili da identificare e demolire, si evidenziano le barriere culturali: molte fasce della popolazione ritengono infatti il museo un luogo distante dalla propria realtà culturale e in un certo senso respingente. Vi sono persone che non visitano i musei perché li ritengono a priori dei luoghi al di sopra delle loro capacità di comprensione; mentre altre, pur avendone fatta esperienza, sono rimaste frustrate dall’uso di un linguaggio troppo specialistico e quindi autoreferenziale. Per venire incontro a un maggior numero di persone possibili è necessario, quindi, che i musei adottino, se possibile, un linguaggio semplice. Vi sono infine le barriere cognitive che sono anch’esse molto difficili da affrontare, anche perché le disabilità cognitive si presentano sotto varie tipologie. Quindi, la sfida che si pone al museo e ai mediatori culturali è quella di creare un’offerta ogni volta diversa e di dover rileggere e presentare le collezioni secondo criteri che esulano da quelli tradizionali (informativi o cognitivi), per focalizzarsi sulla realizzazione di esperienze culturali che abbiano come scopo la gratificazione, la serenità, lo stimolo alla curiosità e al coinvolgimento dei visitatori con disabilità cognitiva. Si deve ricordare, poi, un tipo di pubblico particolare, costituito dai bambini e dagli anziani: per entrambi, in modi diversi, spesso i luoghi della cultura non offrono adeguati servizi di accoglienza (si pensi ad esempio a spazi appositi per i più piccoli o strumenti informativi ad hoc), né percorsi di visita adeguati (per quanto riguarda gli anziani si pensi alla presenza di scale o alla mancanza di posti a sedere). Parallelamente agli studi di settore effettuati e coerentemente con l’ampliamento del concetto di barriera alla fruizione della cultura, la Direzione generale dei Musei, con Decreto dirigenziale del 27 giugno 2017, ha istituito un Gruppo di lavoro per stabilire le linee guida necessarie al superamento delle barriere culturali, cognitive, psicosensoriali. Sono state pubblicate, quindi, il 6 luglio 2018, le Linee guida per la redazione del Piano di eliminazione delle barriere architettoniche (P.E.B.A). Il loro scopo è quello di fornire indicazioni molto dettagliate sulla sicurezza di opere e persone, sull’accessibilità di spazi e servizi da parte di pubblici molto diversificati, sull’educazione e il diletto dell’esperienza museale, con un approccio interdisciplinare nella progettazione, realizzazione e manutenzione degli interventi. Tali interventi, secondo le Linee guida, devono essere svolti inoltre nel rispetto di un’architettura che spesso ha valore storico-artistico, tenendo presente, inoltre, che l’accessibilità non inizia e non termina all’ingresso del museo, ma coinvolge i canali di informazione digitale, le indicazioni per il raggiungimento dell’istituto culturale e poi la manutenzione e monitoraggio delle procedure sull’accessibilità intraprese. Sebbene, come abbiamo visto, il dibattito e le azioni normative si siano spostate sempre più verso un’attenzione rivolta non solo alle barriere architettoniche, ma anche alle barriere di altro genere, il lavoro da compiere è ancora lungo, come attestano i dati più recenti. Il Rapporto Istat 2019 riporta che in Italia sono 4908 i luoghi della cultura del Paese: il 53 % di essi ha realizzato strategie per il superamento delle barriere architettoniche, mentre il dato rimane al 12 % se si considera l’accessibilità senso-percettiva, culturale e cognitiva. Per quanto la realtà dei fatti mostri una certa incompiutezza in questo campo, il museo in quanto istituzione culturale si sta aprendo sempre più alle nuove esigenze di welfare culturale, che si integra a quelli della sanità, della scuola, etc.: si sta prendendo atto sempre di più che partecipare alle attività culturali stimoli i circuiti neuronali che sostengono le funzioni cerebrali, bloccando le condizioni di stress, quindi l’esperienza artistica diventa medium di un’azione terapeutica sull’organismo umano. Una delle prospettive che negli ultimi anni ha iniziato a prendere vita è quella dell’esternalizzazione delle collezioni e delle attività museali: il museo lavora al di fuori delle proprie mura, rivolgendosi a contesti molto diversi e apparentemente distanti, quali reparti ospedalieri, carceri, residenze assistite per anziani, nell’ottica di venire incontro alla parte più fragile della società. Questa pratica si è necessariamente intensificata negli ultimi mesi a causa dell’emergenza sanitaria da Covid 19 e della conseguente chiusura al pubblico degli istituti culturali: tale situazione ha favorito momenti di incontro online (conferenze, percorsi tematici e visite virtuali dei musei). Nell’intento di potenziare l’attenzione per l’accessibilità ai luoghi di cultura, la Circolare n.26 del 25 luglio 2018 ha introdotto la figura del Responsabile per l’accessibilità (R.A.): una figura destinata ad affiancare il direttore del museo e a interagire con diverse professionalità per redigere e attuare il Piano per l’eliminazione delle barriere architettoniche, contribuendo alla progettazione e all’attuazione degli interventi svolti nell’ottica della fruizione ampliata. Per trarre una conclusione sul tema affrontato, si può ritenere opportuno che gli istituti culturali adottino un’offerta formativa improntata su approcci differenziati, non solo cognitivi, ma anche sperimentali ed emozionali, in modo da permettere a più e diversi soggetti di beneficiarne sentendosi protagonisti, in quanto portatori della propria personale esperienza di vita. Non bisogna quindi trascurare il fatto che accessibilità significa prima di tutto buona accoglienza e la capacità di mettere a proprio agio il visitatore, con l’idea, sempre presente, che la care e le misure volte a migliorare l’accessibilità, si possano rivelare ugualmente vincenti per tutti i visitatori. In un futuro speriamo prossimo, la sfida per i luoghi della cultura sarà quella di aprirsi a una progettazione che non distingue fra pubblico di normodotati e disabili, ma che adotta dei criteri di accessibilità sempre più allargati, i cui accorgimenti (negli allestimenti, nella comunicazione, negli ambienti, nella formazione del personale e nelle attività) si rendono “invisibili”, con l’idea che “la vera accessibilità, quando c’è, non si vede”. La “Care” della Rete Sociale: l’importanza dei legami per il benessere dell’assistito a cura di Silvia Luschi. Studi recenti hanno dimostrato, e la pandemia che stiamo vivendo lo ha confermato, che una risorsa di crescente importanza è sicuramente rappresentata dalla realtà associativa, dall’appartenenza ad una rete relazionale, dagli scambi e dalle collaborazioni che ne conseguono; tutto ciò può dar vita ad esperienze significative, di valore individuale e soprattutto collettivo. La funzione del gruppo, essenziale per ogni persona, è ancora più evidente quando ciò che accomuna i suoi membri ruota attorno ad esperienze complesse e sfidanti, come nel caso della disabilità. Quando si affrontano temi delicati ed importanti quale quello in questione, risultano di particolare interesse le attitudini e le inclinazioni delle persone maggiormente coinvolte nella questione; ci si riferisce quindi alla figura del genitore, del parente, della famiglia in senso lato o, in certi casi, del coniuge, del caro amico o di qualsiasi altra persona che assume per scelta, e non solo, la qualifica di caregiver. Il termine “famiglia”, sociologicamente inteso, viene utilizzato per identificare tutti i membri che, indipendentemente dalle forme e dai modi, compongono il nucleo familiare entro cui ogni persona vive e cresce. E’ evidente che all’interno della famiglia, tra i suoi componenti, possono esservi diversi livelli di partecipazione, che diversamente entrano in relazione con il servizio. Da qualsiasi prospettiva si analizzino, il primo elemento che occorre considerare non può che essere rappresentato dall’attenzione costante ad un senso di rispetto verso quelle che possono essere le risposte emotive e comportamentali delle varie figure sopracitate, che meritano quindi di essere considerate nella loro veste di detentori di saperi, significati e sguardi preziosi in grado di sprigionare, se efficacemente valorizzate, risorse ed opportunità non solo per se stessi, ma anche e soprattutto per gli altri. Generalizzando, possiamo affermare che la vita di ogni persona ruota attorno tre nodi principali: la famiglia, le istituzioni, con cui a vario titolo la persona entra in contatto, e il contesto di appartenenza. La qualità delle relazioni esistenti tra questi nodi pone le premesse per la realizzazione del progetto esistenziale di ciascuno e per l’instaurarsi di un processo circolare positivo. L’obiettivo della rete sociale che ne deriva dovrebbe mirare al raggiungimento della vita indipendente di tutte le persone coinvolte, disabili e non. A questo proposito, da un approccio fondato, quasi unicamente su un intervento di tipo individualistico e unidirezionale, si è passati alla prospettiva attuale che prevede il coinvolgimento di tutte le risorse umane, organizzative e strutturali, operanti nei diversi contesti di appartenenza. La costruzione della qualità dei servizi socio sanitari, socio assistenziali ed educativi è un processo articolato, in continua evoluzione, che richiede l’apporto di diversi soggetti su molteplici prospettive. Il tema della partecipazione assume una rilevanza centrale, soprattutto nella misura in cui si traduce a diversi livelli organizzativo, gestionale, educativo, pedagogico e politico e in relazione ai differenti attori: gli assistiti, i loro genitori e, più in generale, le figure familiari che si occupano quotidianamente della loro cura e educazione, i numerosi professionisti coinvolti nei servizi (educatori, coordinatori pedagogici, assistenti ausiliari, pedagogisti, responsabili e funzionari…),e, infine, la comunità di cui bambini, adulti e servizi sono parte, ovvero un grande social network costituito da tutti gli attori presenti sul territorio, dalle altre tipologie di servizi, da tutto il vicinato e dall’intera comunità. E’ quindi imprescindibile la costruzione di una rete, in cui tutti gli elementi e i loro reciproci legami associativi possano rivestire un ruolo significativo e centrale, che non può essere in alcun modo disatteso; ogni nodo avrà certamente proprie responsabilità e propri compiti. Certamente prima del “contenitore” (il servizio, la risposta, l’intervento) si deve porre al centro dell’intero processo la difesa della persona con la propria dignità e il suo diritto a rimanere nel proprio luogo e spazio di vita, ovvero nella propria comunità, a stretto contatto con le proprie reti familiari e sociali (cd. relazioni significative), per permettere all’individuo la continuità storica del se’, spesso minacciata dai rapidi cambiamenti di quelle situazioni che minano la sua comfort zone già di per sé debole. La “persona al centro” significa che non è solo l’oggetto del sistema di prestazioni e risposte, ma è anche e soprattutto soggetto che collabora, partecipa, sceglie il processo di inclusione sociale, possibilmente anche laddove la gravità del quadro clinico o comportamentale fosse di notevole entità. Ovunque la partecipazione è un tema caldo, ampiamente citato e dibattuto, ma ciò non significa che sempre riesca a realizzarsi concretamente e a pieno; ad esempio, la partecipazione non si configura automaticamente con la presenza dei soggetti facente parte la rete sociale, né con qualsiasi ‘dichiarazione di intenti’ collaborativi. La relazione effettiva che ne deve derivare può orientarsi e connotarsi in modi diversi, sulla base delle prospettive attraverso cui la si concepisce, osserva e analizza; delle motivazioni, delle competenze e della formazione degli attori coinvolti. La relazione tra servizi e rete sociale può fondarsi su processi diretti ad informare, ascoltare, conoscere, suggerire; deve essere vista come non partecipazione della “famiglia” ai servizi, quanto piuttosto come una partecipazione, insieme ai servizi (e altri attori del territorio), all’attività di promozione, sviluppo e integrazione della persona interessata. In tal senso, sarebbe addirittura opportuno che il destinatario della relazione assuma la posizione di co-attore attivo del proprio sviluppo. Nella realtà attuale si sta sempre più diffondendo l’intento, anche a livello istituzionale, di promuovere la qualità dei servizi attraverso la progettazione e la realizzazione di pratiche partecipative, attività di job shadowing, ovvero di osservazione, scambio e riprogettazione di buone pratiche di partecipazione tra i diversi attori del partenariato, da un lato, e attività di studio e ricerca sulle pratiche di partecipazione e sui relativi indicatori e strumenti, dall’altro. Questa dinamica collaborativa richiede un cambiamento negli atteggiamenti culturali, gli operatori dei servizi devono essere capaci di valorizzare il sistema familiare, e della rete sociale in generale, come risorsa primaria e strategica con cui costruire una vera e propria alleanza progettuale e operativa, una partnership stabile e dinamica nel proporre e realizzare progetti e interventi a favore del disabile; la “famiglia” deve uscire dall’ottica del paradigma assistenziale, passivizzante, nei confronti del proprio membro disabile, a favore di una concezione capace di conquistare progressivamente "piccoli spazi di autonomia", in cui l’individuo possa esercitare, con tutti i dovuti limiti e distinguo, un ruolo attivo, responsabile e quindi autonomo. Data una definizione di partecipazione, qualunque essa sia, è importante individuare in che misura e in che modo un concetto, a cui corrisponde una vasta gamma di azioni, possa trasformarsi in un valore, ossia in qualcosa di importante per i soggetti coinvolti nei servizi. Una volta che la partecipazione è stata definita ed è stata riconosciuta come un valore, si apre il problema della sua promozione: in che modo è possibile realizzare e promuovere forme di partecipazione tra servizio e famiglia? Chi si attiva? In che modo il servizio può favorire le diverse forme di partecipazione delle famiglie? Con quali obiettivi e attraverso quali ruoli e quali risorse? A quali condizioni, cioè, è possibile che realmente e concretamente servizi e famiglie possano essere co-autori? E’ ormai chiara l’esistenza di un fil rouge che lega le varie realtà familiari e che nasce da una rinnovata consapevolezza per la quale “la costruzione di una rete di servizi” e di un sistema “esperto” di presa in carico della persona con disabilità non può prescindere da un reale coinvolgimento della rete sociale dell’assistito, pensata non solo e non semplicemente come destinataria o fruitrice di azioni di sostegno, bensì come attiva protagonista di un processo che pone al centro il benessere e la qualità di vita della persona. La “Care” a Scuola: legislazione della valutazione, diagnosi e trattamento delle Diversità a cura di Noemi Debbi. Il concetto di cura nella sua declinazione legislativa è stato inteso in modi diversi a seconda del periodo storico di riferimento. Di fondamentale importanza è dunque passare brevemente in rassegna quali sono le parole-chiave e gli interventi previsti dalla legislazione, dalla Costituzione ad oggi. Se è vero infatti che il contesto influenza l’elaborazione e la promulgazione delle leggi, è altresì vero che esse mettono nero su bianco, istituzionalizzando, il sentire comune in un Paese. Può essere utile, a tal fine, volgere una specifica attenzione verso il concetto di cura nella sua declinazione e attuazione all’interno della scuola, se per “Scuola” si intende l’incubatrice della cittadinanza. La Costituzione della Repubblica Italiana pone le basi per la garanzia dei diritti fondamentali dell’uomo, per la dignità sociale, l’uguaglianza davanti alla legge e la rimozione degli ostacoli di ordine sociale ed economico che limitano, di fatto, l’esercizio della partecipazione alla vita pubblica e il pieno sviluppo della personalità (articoli 2 e 3). Gli articoli più rilevanti e da sottolineare riguardo l’ambito scolastico sono il 34 e il 38, che esprimono l’apertura della scuola a tutti e il diritto allo studio “degli inabili e minorati”. In generale, è importante evidenziare che il concetto di uguaglianza proposto dalla Costituzione assume valore giuridico e civile. Dalla Costituzione fino agli anni ‘70 tuttavia, non si trova coerente riscontro nei confronti della cura della disabilità. I primi provvedimenti legislativi per il riconoscimento delle diversità rilevanti, nascono dalla spinta della associazioni di categoria, e per questo la legislazione si presenta frammentaria, disorganica, prevalentemente di tipo assistenziale e volta al risarcimento (invalidi di guerra, legge n. 78/49; sordomuti, legge n. 698/50; ciechi civili, legge n. 66/62). In questo senso la diversità sembra essere concepita come separata dal tessuto sociale. La scuola è lo specchio di questa concezione, come possiamo intuire dall’istituzione delle classi differenziali a seguito della legge n. 1859/1962. All’inizio degli anni 70’ notiamo un cambiamento di tipo sostanziale nella legge n. 118/1971 “Disposizioni in favore dei mutilati e invalidi civili”. Anche se questa è ancora settoriale, sembra presentare un concetto diverso di cura. Al disabile vengono riconosciute una pensione e un assegno mensile (articoli 12 e 13), ma i temi principali del documento sono rivelati nell’articolo 4: riabilitazione, ricerca e prevenzione. Si prevedono dunque contributi per la costruzione, la trasformazione, l’ampliamento e il miglioramento delle attrezzature nei centri di riabilitazione, si erogano fondi per gli studi volti alla prevenzione e all’incremento dei servizi psicologici, sanitari e sociologici concernenti le principali malattie, si istituiscono scuole apposite per la formazione di personale specializzato, sia personale paramedico che educatori e assistenti sociali. Di tipo assistenziale comunque è ancor la parte dedicata alla scuola, con l’articolo 28 che prevede il trasporto gratuito, il superamento delle barriere architettoniche e l’assistenza durante gli orari scolastici dei disabili più gravi. Si dovrà aspettare la legge n. 517/77 per l’abolizione delle classi differenziali. In generale comunque possiamo affermare che il legislatore ha tentato intervenire per la tutela dei diversi ambiti della vita del disabile: dall’assistenza economica, a quella sociale, alla formazione, all’eliminazione delle barriere. Traspare un concetto di cura diverso dal periodo precedente: qui la persona non è più solamente da assistere e “tenere separata”, ma, alla pur necessaria assistenza, si aggiunge la riabilitazione e l’inserimento attivo all’interno della società. Negli anni 80’ non si raggiunge ancora un livello uniforme nella cura verso le persone disabili, ma data la consapevolezza della frammentarietà delle leggi presenti, si inizia a richiedere un testo più organico, che riconosca in primis il diritto di cittadinanza e integrazione sociale a tutti. La legge 104/1992 proviene da questa esigenza, e sposta l’attenzione degli interventi su questo tema. Da notare che la legge sostituisce la parola sminuente “invalido” con handicappato, descritto secondo la concezione tradizionale della medicina legale, come “colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione, di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione” (art.1). L’organizzazione degli interventi è pertanto chiamata a svolgere quattro fondamentali funzioni: la prevenzione (art. 6), la riabilitazione (art. 7), l’assistenza (art. 9), l’integrazione sociale (art. 8,art. 14). L’articolo 14 si focalizza sull’integrazione scolastica, presupponendo la facoltà dell’handicappato di frequentare le classi comuni delle scuole di ogni ordine e grado e prevedendo la programmazione coordinata dei servizi scolastici con quelli sanitari, socio-assistenziali, culturali, ricreativi, sportivi e con altre attività sul territorio gestite da pubblici e privati. Sono fornite attrezzature tecniche e i sussidi didattici, oltre che l’obbligo per le autonomie locali di fornire assistenza per l’autonomia e la comunicazione personale degli alunni con handicap fisici o sensoriali. Negli anni 2000 possiamo fare riferimento a un cambiamento essenziale, che amplia lo sguardo nell’ambito europeo, con la Convention on the rights of persons with disabilities del 2007. Il documento crea una svolta nel concetto di cura intesa come universalità, interdipendenza, individualità e interrelazione di tutti i diritti umani e presuppone le libertà fondamentali per tutti. Due sono i punti di rilevanza concettuale: il primo è che la Convenzione dichiara i diritti universali di tutti, ma crea anche le condizioni affinché essi siano rispettati sul piano fattuale. Lo stato di disabilità infatti può essere riferito a chiunque si trovi in un particolare momento della sua vita, in uno stato di bisogno-altro da sé, ovvero in un periodo in cui l’aiuto dell’altro e delle istituzioni si manifesta come necessario. Il secondo aspetto rilevante è che il documento è stato formulato prendendo in considerazione attivamente le istanze delle parti interessate secondo il motto “nothing about us without us”. Il modello di riferimento è quello bio-psico-sociale dell’ICF (International Classification of Diseases, 2001). Secondo l’approccio sociale, non basta la menomazione per creare disabilità, ma questa è data dall’interazione tra la menomazione, i contesti sociali e le barriere ambientali. Tutta la società dunque è chiamata alla rimozione delle barriere, all’integrazione e all’inclusione. L’articolo 1 sottolinea infatti che lo scopo è “promuovere, proteggere e assicurare il pieno ed eguale godimento di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali delle persone con disabilità e favorire il rispetto della loro essenziale dignità.” In Italia questo testo viene ratificato dalla legge n. 18/2009. L’art. 3 di quest’ultimo documento prevede l’istituzione dell’Osservatorio Nazionale sulla condizione delle persone con disabilità per l’implementazione e la messa a punto delle strategie di integrazione, in accordo con quanto previsto dalla Costituzione e dalla legge 104/1992. Il concetto di cura è chiarito dall’espressione chiave di ’”accomodamento ragionevole” inteso come “le modifiche, gli adattamenti necessari e appropriati che non impongano un carico sproporzionato o eccessivo, ove ve ne sia la necessità, in casi particolari, per assicurare alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di eguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e fondamentali” (art. 2). La scuola dunque, sarà finalizzata al pieno sviluppo del potenziale umano, del senso di dignità e autostima, allo sviluppo della personalità e alla partecipazione attiva a una società libera (art. 24). Nella scuola, da questa Convenzione e seguendo l’ottica fin d’ora esposta, nascono le principali tutele per la cura degli alunni BES: la Nota prot. n. 4274 del 4 agosto 2009 “Linee guida per l’integrazione scolastica degli alunni con disabilità”, la Legge n. 170/2010 “Nuove norme in materia di disturbi specifici di apprendimento in ambito scolastico”, il DM n. 5669 12 luglio 2011 “Linee guida per il diritto allo studio degli alunni e degli studenti con disturbi specifici di apprendimento”, la Direttiva MIUR del 27/12/2012 “Strumenti d’intervento per alunni con bisogni educativi speciali e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica”. In una prospettiva di costruzione storica delle condizioni di differenza, le leggi sono da intendersi come atti linguistici, che delineando visione e spazi di azione si iscrivono nei corpi. Dall’assistenza si passa progressivamente verso l’inclusione, dall’invalidità intesa come caratteristica immutabile del soggetto si passa alla disabilità come processo che emerge dall’incontro dell’individuo con il contesto sociale. La “Care” è un Diritto: Iter della Legge Istitutiva del Caregiver a cura di Rino Ciancimino. La questione del caregiver familiare non è una questione risolta. La figura del caregiver familiare ha avuto un primo riconoscimento nell’ordinamento giuridico italiano nell’art. 1, c. 255, della Legge 205/2017 (Legge di Bilancio per il 2018), ma si tratta di un riconoscimento solo formale. Vediamo, allora, la definizione che ne dà la Legge per poi esaminarne i punti critici, le allocazioni delle risorse e, infine, le proposte delle più rappresentative Associazioni del Settore. La stessa Legge istitutiva del Fondo Nazionale (Legge 205/2017) aveva anche fornito, nel sopracitato articolo, una definizione di caregiver, tuttora valida: si definisce caregiver familiare la persona che assiste e si prende cura del coniuge, dell'altra parte dell'unione civile tra persone dello stesso sesso o del convivente di fatto ai sensi della legge 20 maggio 2016, n. 76, di un familiare o di un affine entro il secondo grado, ovvero, nei soli casi indicati dall'articolo 33, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, di un familiare entro il terzo grado che, a causa di malattia, infermità' o disabilità, anche croniche o degenerative, non sia autosufficiente e in grado di prendersi cura di se', sia riconosciuto invalido in quanto bisognoso di assistenza globale e continua di lunga durata ai sensi dell'articolo 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, o sia titolare di indennità di accompagnamento ai sensi della legge 11 febbraio 1980, n. 18. I presupposti che devono configurarsi, quindi, perché una persona possa definirsi “caregiver” risiedono nel rapporto che lega tale persona alla persona assistita (coniugio, unione civile, convivenza di fatto, parentela o affinità) nonché nelle condizioni di quest’ultima, che devono avere determinato il riconoscimento della “disabilità grave” ai sensi dell’art. 3, c. 3, L. 104/92 o dell’indennità di accompagnamento. In prima battuta, possono considerarsi caregiver coloro che sono più prossimi alla persona (il coniuge, il convivente di fatto, colui che ha un’unione civile con la persona assistita o un suo parente o affine di secondo grado) mentre si considereranno i parenti del terzo grado, solo quando i genitori o il coniuge della persona assistita abbiano compiuto i sessantacinque anni di età oppure abbiano anch’essi patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti. In Parlamento sono ancora attualmente in discussione varie proposte di legge volte anche a modificare la definizione di caregiver, ma per il momento si fa sempre riferimento al dettato normativo del 2017 sopra menzionato. Le risorse messe in campo sono ancora del tutto irrisorie, specie se si vuole ipotizzare, come chiesto da più parti negli ultimi mesi, di costruire dei contributi o voucher per i singoli caregiver, visto che, a fronte per esempio dell’utilizzo di 200 euro mensili, al massimo potrebbero coprirsi, in questa tornata, in cui eccezionalmente si utilizzano in un sol colpo tre annualità, poco più di 28.000 caregiver. Del resto, è possibile ipotizzare che in una fase emergenziale le Regioni corrano il rischio di individuare interventi di immediato impatto per le singole persone, senza invece strutturare seri percorsi di presa in carico nel tempo, articolando il tutto rispetto anche ad una nuova concezione di welfare di comunità, sostenendo e valorizzando quindi anche forme flessibili di servizi alla persona, anche con l’utilizzo dello strumento della coprogettazione e dunque del Budget di salute. Sul punto le organizzazioni rappresentative delle persone con disabilità possono giocare, nel momento della programmazione degli interventi sui tavoli regionali, un ruolo importante, costruendo dei pilastri per un percorso sostenibile nel tempo. Le più significative proposte, per una legge che effettivamente valorizzi il caregiver, sono quelle della Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap (FISH) e della Federazione tra le Associazioni Nazionali delle persone con Disabilità (FAND), da sempre impegnate nel richiedere il riconoscimento del ruolo centrale svolto dai milioni di cittadini che si prendono quotidianamente cura e carico di persone con disabilità e non autosufficienti, svolgendo il fondamentale ed insostituibile ruolo di “caregivers familiari”, auspicano che si pervenga al più presto all’emanazione di un’apposita legge che collochi tale figura all’interno della rete integrata di servizi, e riconoscendone ruolo, funzioni ed adeguati sostegni nonché idonee coperture previdenziali. Il tutto è ben dettagliato nella memoria depositata dalla Federazione in 11° Commissione del Senato rispetto alla proposta di legge n. 1461. Sulla scorta di tali considerazioni, vi è da rilevare che con la legge n. 178/2020 (legge di bilancio per il 2021), all’art. 1, c.334, si è di ritenuto di riallocare le risorse per interventi legislativi non per singoli interventi, destinando le risorse dell’apposito Fondo alla copertura finanziaria di interventi legislativi finalizzati al riconoscimento del valore sociale ed economico dell'attività di cura non professionale del caregiver familiare, come definito al comma 255, dell'articolo 1 della legge 27 dicembre 2017, n. 205. Tale fondo avrà una dotazione di 30 milioni di euro per ciascuno degli anni 2021, 2022 e 2023. Ci sono altre misure esistenti per i caregiver e la più rilevante credo sia l’introduzione del c.d. contributo per mamme disoccupate o monoreddito (Art. 1, commi 365 e 366, l. 178/2020) che riconosce alle madri disoccupate o monoreddito facenti parte di nuclei monoparentali con figli a carico aventi una disabilità riconosciuta in misura non inferiore al 60%, un contributo mensile nella misura massima di 500 euro netti, per ciascuno degli anni 2021, 2022 e 2023, nel limite massimo di spesa per lo Stato di 5 milioni di euro per ciascuno dei 3 anni. Con un decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, da emanare entro il 1 marzo 2021, saranno stabiliti i criteri per l’individuazione dei destinatari e le modalità di presentazione della domanda. Ciò potrebbe chiarire anche alcune incertezze, anche di tipo applicativo, sorte con riferimento a tale misura. Qualcosa è stato inserito anche nella Legge di bilancio per il 2021. Per concludere, è opportuno ricordare che un Disegno di Legge su questa materia già giace in Parlamento da diverso tempo, senza che se ne venga a capo. Fa eccezione l’Emilia-Romagna, dove questa figura è stata riconosciuta da tempo con la Legge Regionale 2/2014. Ma nei fatti, al momento, a parte i permessi retribuiti previsti dall'articolo 33 della Legge 104/1992, i/le caregiver familiari non hanno tutele né riconoscimenti per il loro lavoro, neanche quando per svolgerlo si ritrovano a dover lasciare il lavoro retribuito. Bibliografia tematica Bibliografia di “Filosofia della “Care” AA.VV (1990). “Api o architetti. Quale universo. Quale ecologia”, California University, Ed. L’Unità. Brotto S. (2013). “Etica della Cura”, Ortothes. Casalini B. (2015). “Donne, diritto, diritti. Prospettive del giusfemminismo”, Ed. Giappichelli, Torino. Casalini B. (2012). “L’etica della cura. 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Toscana. Novità per i gravissimi

Toscana, nuove disposizioni per le persone con disabilità gravissime SIMONA 17 GIUGNO 2022 Nei giorni scorsi la Regione Toscana ha introd...