Siamo tutti Caregivers

lunedì 24 gennaio 2022

Uno Scultore non vedente

FELICE TAGLIAFERRI (Scultore non vedente) - 1969 CRISTO RIVELATO Fonte testo e foto: felicetagliaferri.it L'idea è nata nell'aprile 2008, durante una visita di Felice Tagliaferri a Napoli, quando all'artista non è stato consentito di vedere a suo modo, cioè con le mani, la celebre scultura di Giuseppe Sanmartino, esposta nella Cappella Sansevero. Tagliaferri, che da anni porta avanti il messaggio che l'arte è patrimonio universale e come tale deve essere accessibile a tutti secondo le proprie possibilità, ha perciò pensato di proporre una sua versione dell'opera che sia disponibile alla fruizione tattile. Il nome dell'opera, "Cristo rivelato", ha il doppio significato di "velato per la seconda volta" e "svelato ai non vedenti". L'opera, che ha le dimensioni di 180x80x50 cm, è stata realizzata a partire da un blocco di marmo sbozzato da artigiani con la supervisione di Felice Tagliaferri, che l'ha portata a compimento tra il 2009 e la fine del 2010 curandone in modo particolare l'aspetto tattile.

venerdì 14 gennaio 2022

L'interdipendenza della Cura.

Informare un'H SIMONA 9 DICEMBRE 2021 Negli ultimi anni in Italia si parla olto di più della figura del caregiver, la persona che presta assistenza in modo globale, continuo e gratuito ad un familiare non autosufficiente a causa di una disabilità o di patologie/situazioni legate a specifiche patologie o all’invecchiamento. Se ne parla perché tale figura, pur essendo stata formalmente riconosciuta a livello nazionale – la Legge 205/2017 (articolo 1, commi 254-255-256) la definisce ed ha istituito il “Fondo per il sostegno del ruolo di cura e di assistenza del caregiver familiare” –, non gode ancora di alcuna tutela concreta, una situazione che la espone ad una sistematica violazione dei propri diritti umani. Esiste un Disegno di Legge – il Disegno di Legge A.S n. 1461– Disposizioni per il riconoscimento ed il sostegno del caregiver familiare – che dovrebbe colmare questa lacuna, ma esso è fermo da tempo presso l’XI Commissione Lavoro del Senato ed è difficile stabilire se riuscirà a trasformarsi in Legge entro la fine della legislatura. Va inoltre precisato che, anche se venisse approvata, la norma – pur introducendo, tra le altre, tutele previdenziali minime, misure per la conciliazione tra attività lavorativa e attività di cura e di assistenza, misure di adeguamento dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP) e dei livelli essenziali di assistenza (LEA) in favore dei caregiver familiari – non solo non modifica in alcun modo l’importazione familistica del lavoro di cura, ma, nella formulazione proposta, la rafforza. Come accennato, negli ultimi anni gli studi sul caregiving si sono moltiplicati, si sono costituiti anche dei gruppi specifici di caregiver impegnati nel rivendicarne una tutela giuridica, sono stati colti gli aspetti legati al genere (la consuetudine attribuire i compiti di cura alle donne), e non è difficile che alcuni/e di loro prendano la parola pubblicamente per raccontare le proprie esperienze, spesso drammatiche. Le loro testimonianze sono una delle fonti primarie da analizzare per esprimere qualsiasi considerazione sull’argomento, sebbene non sia difficile individuare in alcune di esse delle ambiguità irrisolte. In alcune narrazioni, ad esempio, sembra che vi sia una sostanziale sovrapposizione tra le istanze del caregiver e quelle della persona di cui si cura. Che la persona che presta assistenza e la persona con disabilità esprimano due soggettività distinte non è in alcun modo messo in rilievo, né, ancora meno, che possano avere anche interessi confliggenti. Confliggenti non vuol dire illegittimi: una buona norma dovrebbe proporre una disciplina che permetta ad ogni individualità di soddisfare i propri interessi e di vedere rispettati i propri diritti. Se, ad esempio, l’interesse del caregiver è quello di mantenere il lavoro retribuito, e quello della persona con disabilità è avere un’assistenza continuativa, esplicitare questi due interessi e considerarli entrambi degni di tutela è un presupposto indispensabile per soddisfarli entrambi. Per contro, in altre narrazioni vi è la tendenza ad insistere sulle contrapposizioni. Per cui, sempre ad esempio, non è infrequente che il riconoscimento della figura del caregiver sia messa in contrapposizione alla promozione della vita indipendente delle persone con grave disabilità. In merito a questo rilievo è possibile osservare che, fermo il presupposto che tutta l’assistenza (sia quella gratuita e informale, che quella retribuita) rivolta alle persone con disabilità deve essere orientata a promuoverne l’autonomia e l’autodeterminazione, in realtà i due percorsi non sono in conflitto, nel senso che assolvono a funzioni diverse. Ad esempio, nel caso in cui la persona con disabilità sia un minore la figura del caregiver è difficilmente sostituibile. Nei casi di persone con disabilità intellettiva è abbastanza improbabile che il processo di emancipazione dalla famiglia si compia al raggiungimento della maggiore età, dunque sarebbe meglio non escludere a priori il supporto dell’assistenza informale nel processo di distacco dalla famiglia d’origine anche dopo che la persona in questione è divenuta maggiorenne. Negli altri casi la persona con disabilità e il/la caregiver dovrebbero essere messi in grado di scegliere se e cosa condividere, poiché l’assistenza informale può essere vissuta anche come un’esperienza di condivisione gradita alle parti coinvolte nella relazione, anche nell’ambito di soluzioni integrative dell’assistenza retribuita e autogestita. La quesitone pertanto non è se promuovere l’una o l’altra forma di assistenza, ma riconoscerle entrambe per garantire la scelta e per rispondere ad esigenze diverse. Forse, alzando lo sguardo, è possibile andare oltre queste letture che negano la differenza o che la radicalizzano. Ciò è possibile se ci si dispone ad assumere una “posizione laterale” rispetto al tema del lavoro di cura. Non molto tempo fa Loredana Lipperini, giornalista, scrittrice e conduttrice radiofonica, commentando un fatto di cronaca, rifletteva sulla tendenza non nuova di una certa parte del mondo intellettuale a guardare con disprezzo verso “la gente”, i suoi gusti e le sue azioni, ritendo tale atteggiamento non solo ingiusto ma anche controproducente. Nel tentativo di superare questa contrapposizione, Lipperini osservava che «nei momenti in cui non è possibile parlare di avanguardia, tocca, per non retrocedere, fare battaglie di latoguardia. Il che non significa essere pilateschi, ma provare a guardare da tutte e due le parti che si oppongono». Ecco, l’impressione è che anche per riflettere sul lavoro di cura sia necessario mettersi in latoguardia ed iniziare ad interrogarsi sulla relazione che intercorre tra chi presta assistenza e chi la riceve, cercando di capire cosa succede nei due “campi da gioco”. A farlo balza subito agli occhi quanto la stessa distinzione tra “chi presta assistenza e chi la riceve” possa risultare fuorviante per diverse ragioni. In primo luogo il fatto di distinguere tra un soggetto presentato come attivo (che presta assistenza) e uno presentato come passivo (che riceve l’assistenza) dispone ad una relazione in cui ai soggetti è attribuito un diverso potere. In secondo luogo definire il lavoro di cura in questo modo non dice niente sulla volontarietà di quella relazione: chi riveste il ruolo di caregiver è realmente libero/a nell’assumerlo? Chi usufruisce delle mansioni di cura ha scelto di ricevere quelle cure da quella persona? Quelle cure gli/le sono gradite? E andando oltre la volontarietà, la relazione tra caregiver e persone con disabilità costituisce, o può costituire, uno spazio di riconoscimento reciproco? Abbiamo detto che la distinzione tra un soggetto presentato come attivo e uno presentato come passivo può indurre, e spesso induce, ad attribuire ai due soggetti un diverso potere. Questa attribuzione, che sembra così naturale, è legittima? Per rispondere è necessario chiedersi se avere necessità di assistenza costituisce un valido motivo per attribuire alle persone un minor valore o una minore dignità. È facile che riesca ad assumere questa prospettiva chi non si riconosce come soggetto vulnerabile ed esposto alle intemperie della vita, ma è abbastanza improbabile che lo faccia chi ha ben compreso che tra abili e disabili non esiste una linea di demarcazione netta. Per capirlo basta riflettere sul fatto che la stessa persona che presta assistenza, e che ora sembra trovarsi in una posizione di forza, è stata a sua volta destinataria di cure. Lo è stata sicuramente nei primi anni di vita, ma molto probabilmente lo è stata, o potrebbe diventarlo, anche in molti altri momenti della propria esistenza, ad esempio durante una malattia, in relazione a difficoltà di varia natura, in un periodo di depressione, davanti alla perdita del lavoro, in seguito ad un lutto, col progredire dell’età, ecc. Pertanto sarebbe importante iniziare ad esplicitare che tutti gli individui per motivi diversi, ed in momenti altrettanto diversi, possono ritrovarsi sia ad essere fruitori/fruitrici di assistenza sia ad esserne prestatori. Anche le persone con disabilità non autosufficienti potrebbero ritrovarsi a dover organizzare l’assistenza dei propri genitori anziani assumendo il ruolo di caregiver nei loro confronti poiché le mansioni di cura non possono essere ridotte a semplici attività manuali ma richiedono organizzazione e coordinazione. Inoltre le stesse persone non autosufficienti potrebbero avere figli e figlie, e dunque essere chiamati a prestare cure genitoriali. Pertanto, ponendosi di lato, non è difficile scorgere l’interdipendenza della cura e come essa non riguardi solo le persone con disabilità, ma sia propria della natura umana. Questo mostra anche come l’attribuzione di un minore potere a chi ha necessità di cura non sia un dato naturale, ma piuttosto una costruzione sociale da sottoporre a critica e da rigettare. Nel Disegno di Legge già menzionato l’aspetto della volontarietà del caregiver è assunto come un dato di fatto. Infatti nella parte introduttiva è scritto: «Assistere una persona cara non autosufficiente ed esserle di aiuto nelle difficoltà di gestione della vita quotidiana costituisce una funzione cardine delle relazioni di convivenza, basate sulla libera scelta e alimentate da motivazioni affettive e sentimentali» (i grassetti sono un intervento di chi scrive in questa e nelle citazioni successive). Tuttavia perché si possa parlare di scelta realmente libera occorrerebbe che ci fossero delle concrete alternative alla cura informale prestata dai/dalle caregiver, ma allo stato attuale la risposta prevalente all’assenza o all’indisponibilità dei familiari a prestare assistenza continua ad essere l’istituzionalizzazione, e la circostanza che il Disegno di Legge assuma la libertà di scelta del/della caregiver come data significa semplicemente che esso non intende modificare un’organizzazione dei servizi che attribuisce questi compiti alle famiglie, ed all’interno di esse alle donne. L’articolo 4, comma 1, del Disegno di Legge prevede che tra i documenti da presentare per l’accesso ai benefici riconosciuti dallo stesso al/alla caregiver vi sia l’«atto di nomina del caregiver familiare, sottoscritto dall’assistito. Se l’assistito non può, per qualunque impedimento, sottoscrivere l’atto di nomina, quest’ultima [la sottoscrizione, N.d.R.] può essere espressa attraverso videoregistrazione o altro dispositivo che consenta all’assistito la propria manifestazione di volontà». Lo stesso assistito può scegliere di nominare personalmente il proprio caregiver (articolo 4, comma 2), e revocarlo in qualsiasi momento (articolo 4, comma 3). Ciò, almeno formalmente, attribuirebbe all’assistito un certo potere di contrattazione, se non fosse per il fatto che, anche in questo caso, perché la scelta sia realmente libera occorrerebbe predisporre servizi non ghettizzanti né discriminanti alternativi a quelli familiari, cosa che solo raramente viene garantita. Oltre a ciò, la stessa definizione di caregiver proposta dalla Legge 205/2017, e ripresa dal Disegno di Legge con l’aggiunta della specificazione che il lavoro di cura è reso a titolo gratuito, circoscrive la platea dei soggetti ammessi a vedersi riconosciuto questo ruolo, e, a tal fine, indica il coniuge, l’altra parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso o del convivente di fatto (come da Legge 76/2016), un familiare o di un affine entro il secondo grado, ovvero, nei soli casi indicati dall’articolo 33, comma 3, della Legge 104/1992, un familiare entro il terzo grado (articolo 2, comma 1 del Disegno di Legge). Nella sostanza sono esclusi dal riconoscimento tutti i soggetti della cerchia amicale quando questi non rientrano tra i coniugi o assimilati, familiari e affini, quelli che possono essere individuati con l’espressione “parentela alternativa”. Perché? Perché, come accennato, non vi è la volontà politica mettere in discussione l’importazione familistica del nostro welfare. La stessa impostazione che si ritrova anche nella Legge 112/2016 (Disposizioni in materia di assistenza in favore delle persone con disabilità grave prive del sostegno familiare), meglio conosciuta come Legge sul Dopo di Noi, che già a partire dal titolo sottolinea come l’assistenza alle persone con disabilità grave competa in prima battuta alle famiglie delle stesse. E pazienza se la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, ratificata dall’Italia diversi anni prima del 2016 (con la Legge 18/2009), non solo non prevede vincoli di questo tipo, ma riconosce alle persone con disabilità il diritto di «scegliere, su base di uguaglianza con gli altri, il proprio luogo di residenza e dove e con chi vivere e non siano obbligate a vivere in una particolare sistemazione» (articolo 19). Pazienza anche se con la popolazione che invecchia le famiglie saranno sempre più in difficoltà a reggere un sistema che non riconosce il lavoro di cura nel suo complesso (non solo quello dei caregiver), continua a non attribuirgli una valenza pubblica, e non si dispone a redistribuirlo trasversalmente ai generi e alla società perché non siano sempre le stesse persone – in larga prevalenza donne – a farvi fronte comprimendo, talvolta sino ad annullarli, tutti gli spazi di autonomia personale. Non vi è nell’associazionismo delle persone con disabilità una proposta che metta in discussione questo sistema. Per trovarla dobbiamo spostarci in ambito femminista e fare riferimento all’Assemblea della Magnolia*. Quest’ultima, partendo dal riconoscimento della vulnerabilità dei corpi (di tutti i corpi), propone una “Rivoluzione della cura” che ha i suoi cardini nella relazione e nell’interdipendenza (intesa come valore fondante su cui costruire nuove pratiche di democrazia), ed informa la propria azione ai principi di reciprocità, condivisione e accesso egualitario. È facile intuire come, in questa prospettiva, anche la relazione tra caregiver e persone con disabilità possa diventare un luogo di riconoscimento reciproco. Qualcosa di diverso dalla cura acquistata sul mercato, o da quella concessa nel rapporto asimmetrico che spesso caratterizza le cure familiari. Una cura della relazione che è già attenzione all’altro/a prima ancora di tradursi in mansioni di assistenza. Peccato che di tutto questo nel Disegno di Legge che dovrebbe disciplinare almeno una parte significativa del lavoro di cura (quello prestato dal/dalle caregiver) non vi sia traccia. Simona Lancioni Responsabile del centro Informare un’h di Peccioli (Pisa). * L’Assemblea della Magnolia, si è costituita a Roma l’8 luglio 2020, in piena pandemia, è stata fortemente voluta dalla Casa internazionale delle donne, ed è sostenuta da tantissime associazioni, gruppi e individue. Nel documento politico “Non c’è più tempo. Per il pianeta, per il nostro mondo, per le nostre vite. Noi siamo la cura”, del 6 febbraio 2021, l’Assemblea ha individuato i nodi irrisolti che il Covid-19 ha fatto prepotentemente emergere ed ha proposto soluzioni di genere attente ai diritti e alle libertà delle donne. La proposta ha trovato espressione nella manifestazione pubblica dal titolo “Donne in piazza. Quale ripresa? La rivoluzione della cura è tutta un’altra storia!”, tenutasi a Roma 25 settembre 2021. In essa è stata prospettata una “rivoluzione della cura”, un’idea di politica e di giustizia basata sull’interdipendenza e sulla relazione, un’interpretazione della cura che mette al centro il rispetto dell’altro, i diritti e le libertà di tutte e di tutti, ed il riconoscimento di tutte le soggettività. L’Assemblea della Magnolia si ispira alle teorizzazioni proposte nel Manifesto della cura. Per una politica dell’interdipendenza (Edizioni Alegre, 2021), un documento elaborato dal Care Collective, un collettivo londinese costituitosi nel 2017 come gruppo di studio con lo scopo di comprendere e affrontare le diverse forme di crisi del concetto di cura (si veda, in proposito, il seguente approfondimento). Ultimo aggiornamento il 9 Dicembre 2021 da Simona

Costruire la qualità della Cura.

Si può costruire la qualità della Cura senza un progetto di miglioramento? di Letizia Espanoli “Cara Letizia, sono il direttore di una residenza per anziani che negli ultimi due anni è drammaticamente tornata indietro: le nostre relazioni sono diventate dure, sembriamo sempre occupati a ricercare un colpevole e mai una soluzione; la qualità della vita dei nostri ospiti è scesa: prima le giornate si riempivano di visite, di persone. Oggi solo di incontri programmati e sono diventati sempre più difficili. Non vedo più un orizzonte. Non so più da che parte cominciare”. E’ una delle tantissime mai che arrivano alla casella di posta del Sente-mente® modello. Una dichiarazione lucida di fatica di guardare alla speranza come a qualcosa che diventa capace di allenare lo sguardo al futuro, nonostante tutto. Non speriamo in un futuro migliore. Noi costruiamo con Speranza un Futuro migliore. Nel 2002, Charles Snyder, psicologo, iniziò a lavorare sulla speranza e la definì cosi: “avere speranza è come avere un arcobaleno personale nella nostra mente”. Ed ancora nei suoi studi egli ci ricorda che essa non fa parte delle qualità dell’essere, ma è un’abilità del fare, del saper far accadere. Gli studi scientifici ci dicono che la speranza è costituita da tre elementi: la capacità di aver chiaro nella tua testa un risultato che vuoi raggiungere e che sia di valore la capacità di sviluppare strategie specifiche per raggiungere questo risultato la capacità di avviare e di sostenere la motivazione per usare quelle strategie. Gli studi di questi ultimi 20 anni ci dicono che se noi riusciamo ad allenare la speranza come una componente fondamentale delle nostre competenze, ci ritroveremo ad avere: più energia vitale più fiducia più benessere migliori relazioni più autostima uno sguardo capace di cogliere la sfida, di assumerci la responsabilità. Con la Speranza allora saremo in grado di diminuire la sensazione di ansia, di incertezza, di vulnerabilità, che sono tutte sensazioni che abbiamo ampliamente sperimentato in questi ultimi due anni e che hanno portato moltissime persone a non essere in grado di fare più progetti. Senza una progettualità diventiamo organizzazioni senza speranza e senza speranza le organizzazioni si infrangono nel muro della fatica, dell’incapacità di vedere il futuro. Quando noi sviluppiamo la speranza sviluppiamo anche la gioia. E allora come fare a sviluppare la speranza per la tua organizzazione? 1. Inizia a fare, insieme con il tuo team, l’elenco delle criticità presenti nella tua organizzazione oggi. Magari dividile nelle categorie residenti, professionisti, famiglie, organizzazione culturale interna. (Es. una lavanderia che fatica a stare al passo con le richieste delle comunità è una tematica organizzativa. Forse è ora che qualcuno studi i processi organizzativi interni (i capi vengono piegati subito appena usciti dall’asciugatrice oppure vengono accatastati e stirati successivamente? … Comprendi facilmente che la scelta della modalità operativa influenzerà l’efficacia, che studi l’efficienza delle macchine, che ragioni sulla possibilità di affidare ad altri la gestione. Insomma, azioni concrete che risolvano definitivamente il problema. Oppure un dipendente che superato il periodo di prova si rivela totalmente inefficace apre alla tematica: chi seleziona? Quali sono i criteri con i quali seleziona? Chi crea un piano di formazione adeguato alla crescita in azienda? Chi valuta sul campo secondo quali criteri? I criteri sono realmente oggettivi e rispondono all’identità della Cura oppure sono nella “pancia” del responsabile? Eccoci allora ancora una volta davanti ad una tematica organizzativa). Nulla danneggia di più l’organizzazione di una soluzione “cerotto”. Sono proprio le soluzioni tentate e non riuscite che esasperano l’organizzazione. Una volta che hai definito questa lista chiediti quali sono le 4 cose che vuoi cambiare nella tua organizzazione. Lo so che ora mi dirai “solo quattro Letizia?”. Si, perché nulla cambia in un attimo. Non basta volerlo. Non basta chiamare qualcuno a fare formazione agli operatori. Ciò che è necessario è che tutta l’organizzazione abbia chiaro quale obiettivo stiamo perseguendo. Ogni operatore sarebbe felice di far accadere delle cose che porteranno serenità, qualità di vita, bellezza. Ma ogni operatore è anche “risucchiato” dalla quotidianità delle azioni. Questo “vortice” annulla spesso la possibilità di arrivare con successo ai nostri risultati. Ecco perché non possiamo porci più di 4 risultati da raggiungere. Es. 1) miglioramento delle consegne, 2) miglioramento della capacità di accogliere e garantire benessere alle persone con demenza, 3) miglioramento della giornata di vita per i residenti e creazione di piani di lavoro di qualità per i professionisti, 4) creazione di equipe mensili capaci di creare coinvolgimento e appartenenza. Questi sono i quattro obiettivi di una residenza per anziani per l’anno 2022. Per ciascuno abbiamo definito COME, COSA, QUANDO, CHI, CON CHI, PERCHE’ e siamo pronti a vivere il nostro viaggio. 2. Aspettati dei blocchi e preparati perché la strada verso l’obiettivo non è mai semplice. Avere Speranza significa sapere che troveremo degli ostacoli e saper definire prima del viaggio quali saranno le tue azioni davanti all’ostacolo. 3. Chiediti ora: quali sono le competenze da allenare in me stesso? Nella mia squadra? Di cosa devo riempire lo spazio tra il mio desiderio e il raggiungimento del risultato? Spesso di nuove abilità. Si può fare Cura senza un reale progetto di miglioramento? No, assolutamente no. Le residenze per anziani che non si stanno fissando degli obiettivi sono destinate ad un 2022 fotocopia degli anni precedenti, a veder aumentare il livello di stress degli operatori, a fare i conti con gli aumentati conflitti con le famiglie, ma soprattutto sono destinate a veder diminuire il loro valore sul Territorio.

giovedì 13 gennaio 2022

Il Bonus Psicologi. Perplessità

Quotidiano Sanità del 13 Gennaio 2022 Lettere al Direttore Cosa non mi convince nella battaglia per il Bonus psicologi di Antonello D'Elia - Gentile Direttore, vorrei provare a fare un poco di chiarezza nella speranza di migliorare l’informazione circolante sul Bonus Psicologi. Si sta diffondendo l’idea che si contrappongano una politica sorda alla sofferenza umana psichica, assorbita com’è dalla gestione dell’arida economia, e una parte del paese che rivendica le ragioni dell’ascolto e della psicologia impegnandosi in una battaglia di progresso culturale e sociale. Sembrerebbe tutto semplice ma così non è. D’altra parte come potrebbe essere altrimenti in un’Italia che mostra enormi arretratezze nell’immagine pubblica e sociale della cura di parola benché laurei ogni anno migliaia di psicologi a cui non offre lavoro e in cui la confusione tra psicologo, psichiatra, psicoterapeuta, psicoanalista ancora interroga troppe persone, anche quelle provviste di strumenti per avere le idee più chiare? E, aggiungerei, che ha promosso per legge, nel 1978, un’organizzazione capillare territoriale per la tutela della salute mentale lasciandola poi andare alla deriva alimentando l’idea che essa serva solo a somministrare farmaci e a rinchiudere i matti pericolosi? E che, nel 1989, sempre per legge, ha regolamentato la formazione professionale degli psicoterapeuti a cui, per esercitare la professione, è richiesto un titolo di studi specifico e non una semplice laurea in Psicologia? La bocciatura dellemendamento alla legge di Bilancio che revedeva il Bonus Psicologi si inserisce in questo scenario. Ha ragione David Lazzari a ricordare l’efficacia delle cure psicologiche, come pure Luigi Cancrini, su Open, a rivendicare la necessità culturale e sociale della psicoterapia come scelta di politica equa per la salute in una democrazia avanzata e non come bene appannaggio di pochi dotati di mezzi per poterla affrontare. Ora, uno dei punti dirimenti, a mio parere, è proprio questo. La battaglia per il Bonus, cioè per poter avere accesso a cure psicologiche per un numero limitato, molto limitato, di incontri clinici, non può sovrapporsi a quella per la valorizzazione dell’ascolto, della parola, della capacità di riflessione su di sé e sulle proprie risorse relazionali che è il nucleo stesso di un processo terapeutico. Non mi pare sia in gioco la difesa della cura psicologica contrapposta ai trattamenti medici farmacologici, sbrigativi e meccanici. E neppure un modello antropologico di uomo/donna che va riparato con medicine adatte che si confronta con quello di soggetti che, attraverso una relazione di cura, possano aver accesso a parti sofferenti di sé e ripristinare così un’accettabile benessere. Su questi princìpi siamo d’accordo in tanti. Come sul fatto che un modello di cure universalistiche e accessibili quale quello del nostro Sistema Sanitario Nazionale non possa lasciare fuori questa componente della salute senza creare gravi conseguenze per tutti, tanto più nella contingenza innescata ed amplificata dalla pandemia. Fatto sta che la proposta del Bonus non risponde alla logica della bontà delle cure psicologiche ma a quella del mercato del lavoro. Cure per tutti si, ma a tempo, ad opera di non meglio identificati psicologi e a scadenza. Al termine del bonus si potrà sempre continuare presso uno dei tantissimi studi privati dove, insieme a molti professionisti esperti, un mare di laureati in cerca di occupazione potrà trovare finalmente uno sbocco lavorativo, magari avvalendosi delle centinaia di corsi offerti da un enorme mercato formativo il cui accesso prescinde dal possesso di quegli specifici titoli ancora oggi necessari per fare un mestiere delicatissimo (e bellissimo) come quello dello psicoterapeuta. Deregulation si chiamava in epoca reaganiana. Siamo sicuri che i sostenitori del Bonus siano consapevoli di questo? E che sia chiaro a tutti che i Dipartimenti di Salute Mentale sono stati desertificati negli ultimi anni ma, se riforniti di personale, potrebbero tornare ad essere un presidio di cure anche psicologiche? E che lo stesso discorso vale per i Consultori Familiari e per la Psicologia scolastica? Siamo tutti certi che le cure psicologiche siano solo quelle che vengono ‘somministrate’ in uno studio privato reso accessibile da una sorta di convenzione ‘a tempo’ con lo Stato? E se pensassimo in termini di comunità, di società e non di mercato? Potremmo, ad esempio, pensare a una battaglia di cultura e di equità perché le cure psicologiche siano diffuse, di qualità, accessibili e coloro che le praticano degni di rispetto e di riconoscimento professionale. Si potrebbe pensare a un vasto piano in cui i Centri di Salute Mentale vengano ripopolati con professionisti competenti, supervisionati che lavorano in gruppo e pensano in termini di comunità. E i consultori e le scuole dotate di psicologi formati e addestrati che sappiano di bambini, famiglie e adolescenti e insegnanti. O, ancora, che le RSA, magari organizzate in appartamenti e non in grandi contenitori, si attrezzino con personale capace di accostarsi agli anziani e ai vecchi spaventati e soli che aiuti a gestire gli stati di maggior sofferenza, innanzitutto socializzandoli e non trattando solo i singoli individui. Altri professionisti potrebbero avvicinarsi alle famiglie che hanno perso i loro cari e anche a medici e infermieri che lavorano e vivono ogni giorno a contatto con la morte da COVID. In questo caso servirebbero psicoterapeuti assunti dagli ospedali o dalle RSA che si incarichino di disintossicare il personale dall’esposizione prolungata con la morte, contagiosa quanto un virus ma dagli effetti ancora più insidiosi. Si tratterebbe, cioè, di pensare in termini di società e non di corporazioni, di progresso civile e non di lavoro a tutti i costi. I giovani psicoterapeuti, formati, lavorerebbero e come! Ci vorrebbe però qualcuno che abbia a cuore la psicologia come disciplina della salute, della riparazione e della relazione, umana e professionale. E politici che ritengano che bambini, adolescenti e adulti un poco più consapevoli saranno e sono anche migliori cittadini. Antonello D’Elia Presidente di Psichiatria Democratica 12 gennaio 2022 © QS Edizioni - Riproduzione riservata ​

Toscana. Novità per i gravissimi

Toscana, nuove disposizioni per le persone con disabilità gravissime SIMONA 17 GIUGNO 2022 Nei giorni scorsi la Regione Toscana ha introd...