Siamo tutti Caregivers

venerdì 17 settembre 2021

Il manifesto della "Care"

Da Informare un'H Il Manifesto della cura SIMONA 13 SETTEMBRE 2021 La pandemia ci ha mostrato l’essenzialità dei lavori di cura, ma ora che l’emergenza, pur non essendo risolta, è in qualche modo diventata gestibile, il tema della cura sembra essere nuovamente scomparso dal dibattito pubblico italiano, rivelando, per l’ennesima volta, la miopia politica di cui siamo capaci. In questo panorama suscitano grande interesse alcune elaborazioni prodotte su questi temi nel Regno Unito. Un percorso del quale possiamo leggere in una pubblicazione ora tradotta anche in lingua italiana: Manifesto della cura. Per una politica dell’interdipendenza (Edizioni Alegre, 2021). La copertina del Manifesto della cura, oltre a contenere gli estremi dell’opera, è illustrata con i disegni di alcune persone diverse per età, genere, etnia, abilità/disabilità che si aiutano reciprocamente a prendere e distribuire le mele di un albero. L’Italia che ha dovuto far fronte alla pandemia da Covid-19 era quella che negli ultimi dieci anni ha tagliato 37 miliardi alla sanità pubblica, perdendo 70mila posti letto e chiudendo 359 reparti. E tuttavia l’atteggiamento nei confronti degli operatori e delle operatrici sanitari, quelli inizialmente osannati perché in prima linea nel contrasto al Covid, ha cambiato segno con l’evolversi dell’emergenza pandemica, trasformandoli da eroi a dimenticati. Ed insieme a loro sono state dimenticate anche le tante altre figure che hanno svolto compiti fondamentali: lavoratrici domestiche, fattorini, rider, addetti/e alle pulizie, il personale dei supermercati, baby sitter, badanti, assistenti personali, caregiver. La pandemia ci ha mostrato l’essenzialità dei lavori di cura, ma ora che l’emergenza, pur non essendo risolta, è in qualche modo diventata gestibile, il tema della cura sembra essere nuovamente scomparso dal dibattito pubblico italiano, rivelando, per l’ennesima volta, la miopia politica di cui siamo capaci. In questo panorama suscitano grande interesse alcune elaborazioni prodotte su questi temi nel Regno Unito. Un percorso del quale possiamo leggere in una pubblicazione ora tradotta anche in lingua italiana: Manifesto della cura. Per una politica dell’interdipendenza (Edizioni Alegre, 2021). Il Manifesto della cura è un’opera del Care Collective, un collettivo londinese costituitosi nel 2017 come gruppo di studio con lo scopo di comprendere e affrontare le diverse forme di crisi del concetto di cura. Le autrici e gli autori del Manifesto sono cinque persone provenienti da differenti discipline che sono state attive, sia collettivamente che individualmente, in diversi contesti personali, accademici e politici, ed hanno maturato le proprie competenze in differenti Paesi: Grecia, Australia, Stati Uniti e Regno Unito. Ne fanno parte: Andreas Chatzidakis, Jamie Hakim, Jo Littler, Catherine Rottenberg e Lynne Segal. La pandemia ha rivelato la centralità sociale dei lavori di cura, osserva il collettivo londinese, ciò nonostante l’incuria continua a regnare sovrana. Il concetto di cura a cui fa riferimento il collettivo è esteso sino ad includere la cura delle persone, degli animali, delle relazioni, dell’ambiente, del clima e del pianeta. L’opera propone un’idea di cura intesa come visione altra del mondo da contrapporre a quella posta in essere dalle società neoliberiste. Il neoliberismo ha trasformato la cura in una pratica individuale e mercificata, in larga parte riservata solo a chi ha i mezzi per pagarsela, che si è concretizzata nella privatizzazione ed esternalizzazione dei servizi sanitari e sociali. L’antidoto a questa impostazione dei servizi, nella quale la povertà è diventata una colpa ed il bisogno di cura è considerato una debolezza, consiste in un’etica della responsabilità e della condivisione dei lavori di cura, ed individua nell’interdipendenza che ci caratterizza come esseri umani il valore fondante su cui costruire nuove pratiche di democrazia. Le elaborazioni del collettivo prendono le mosse dalle intuizioni di alcune pensatrici femministe, tra le quali la teorica politica Joan Tronto, che ha distinto i concetti di “prendersi cura di” (caring for), che si riferisce agli aspetti più concreti della cura, “interessarsi a” (caring about), che descrive l’investimento emotivo e l’attaccamento agli altri, e “prendersi cura con” (caring with), che riguarda la mobilitazione sul piano politico per trasformare il mondo. La circostanza che la cura sia stata sempre considerata appannaggio delle donne, una loro “capacità innata” ed un’attività “improduttiva”, ha contribuito alla sua svalutazione sotto il profilo economico e del prestigio sociale. Così svalutata la cura si è mantenuta per lo più all’interno della famiglia nucleare, sfruttando il lavoro non pagato delle donne o quello sottopagato delle donne migranti dai Paesi più poveri, e lasciando scoperte le fasce più svantaggiate della popolazione. La centralità attribuita dalle società neoliberiste all’autonomia e all’indipendenza individuale, trova il suo corollario nella rimozione della vulnerabilità e della fragilità delle persone, e porta a disconoscere che l’interdipendenza e la dipendenza dalle cure siano tratti distintivi della condizione umana. Pertanto per scardinare questo sistema è necessario «ammettere la nostra reciproca interdipendenza, accettare le ambivalenze al cuore della cura, assicurare una retribuzione egualitaria dei ruoli di cura e superare l’idea che si tratti di lavoro improduttivo o di una naturale predisposizione femminile, che sia una lavoro per donne prevalentemente povere, immigrate o non bianche» (op. cit. pag. 33). Il lavoro di cura nella sua accezione più ampia va portato fuori dall’ambiente domestico e socializzato attraverso comunità di cura che travalichino la famiglia nucleare. Nel Manifesto sono illustrate molte esperienze di comunità di cura, con spazi e risorse comuni, poste in essere nell’ambito dei movimenti femministi e ambientalisti. Partendo dalla concretezza di queste esperienze, come pure da quelle realizzate in risposta all’emergenza Coronavirus (come alcune pratiche di mutuo soccorso senza le quali le persone più fragili e sole non sarebbero sopravvissute), il collettivo londinese propone un modello sociale di cura universale, nel quale la cura sia al centro di ogni aspetto della vita, tutti e tutte si sentano responsabili nel prendessi cura degli altri e delle altre informando la propria azione ai principi di reciprocità, condivisione e accesso egualitario. In questa prospettiva la cura dovrà necessariamente essere reciproca, universale, “indiscriminata” (che non discrimina), democratica, non paternalista, né assistenzialista. In specifico si tratta di sperimentare reti e legami di cura capaci di espandersi oltre le relazioni intime ed i confini della famiglia nucleare, sviluppando sistemi di cura e strutture di “parentela alternativa”, simili a quelle sperimentate negli anni ‘80 e ‘90 nella lotta contro la diffusione dell’Aids, o a quelle autorganizzate per la cura condivisa dei bambini e delle bambine realizzate negli anni ‘70. Questa nuova pratica della cura è denominata “cura promiscua”, poiché si pone fuori dalle reti familiari e dalle logiche di mercato, e fa riferimento al modello delle “famiglie per scelta” nate in seno ai movimenti LGBT (Lesbiche, Gay, Bisessuali, Transessuali), sperimentate negli anni ‘70. La comunità di cura che ne scaturisce si basa su quattro elementi fondamentali – il mutuo soccorso, lo spazio pubblico, la condivisione di risorse e la democrazia di prossimità –, e richiede che sia supportata dallo Stato. A quest’ultimo è affidato il compito di fornire ampi spazi pubblici, infrastrutture architettoniche e ambientali dedicate, supporti strutturali, risorse materiali e sociali equamente distribuite e condivise, servizi socializzati basati sulla cogestione, forme di democrazia partecipativa. La cura universale si realizza nello Stato di cura che dovrebbe provvedere ai bisogni delle singole persone dalla “culla alla tomba”, creando infrastrutture non burocratiche né paternalistiche, promuovendo servizi solidaristici accessibili a tutti e tutte, facilitando progetti orizzontali di comunità, e incoraggiando la partecipazione ai processi decisionali. Contemporaneamente è necessario contrastare la privatizzazione dei servizi essenziali e attuare una nuova radicale regolazione dei mercati. Infatti per il collettivo londinese l’accesso ugualitario alle risorse materiali, sociali e ambientali essenziali per la realizzazione della cura universale può essere conseguito solo riorganizzando i settori chiave dell’economia al di fuori dei parametri del mercato capitalista, per lo meno in concorrenza, o creando un mercato e un’economia eco-socialisti. La creazione dello Stato della cura richiede anche un superamento del welfare e dello stato sociale keynesiano, eliminando le disuguaglianze di genere e di razza che lo hanno contraddistinto nel secolo scorso, e riformulandolo su basi universalistiche, ugualitarie ed ecologiste. La proposta del Manifesto della cura sembra così ambiziosa da risultare quasi utopica, se non fosse che molte delle pratiche solidaristiche e delle esperienze di condivisione della cura prese in considerazione sono già state realizzate, e si tratterebbe “solo” di incoraggiarne la diffusione destinando risorse e creando infrastrutture perché si estendano a livello planetario. Lo sforzo richiesto è dunque quello di disporsi a ragionare in una prospettiva sistemica, cosa che qui in Italia siamo poco abituati a fare. Se, ad esempio, ci soffermiamo a riflettere sull’impostazione del Disegno di Legge 1461, relativo alle “Disposizioni per il riconoscimento ed il sostegno del caregiver familiare”, rileviamo che questo si configura come un intervento volto a valorizzare il lavoro di cura informale (una cura non mercificata), e tuttavia esso non contiene dispositivi volti a superare le disuguaglianze di genere, né, tanto meno, contempla modalità di cura che vadano oltre la cerchia familiare, escludendo preliminarmente forme di “cura promiscua” (nell’accezione utilizzata nel Manifesto). Pertanto, se anche il Disegno di Legge dovesse passare, ciò che ne scaturisce sarebbe una cura intesa come una faccenda femminile e familiare. Per contro viene in mente il meraviglioso lavoro di Gino Strada, il chirurgo fondatore di Emergency scomparso lo scorso 13 agosto, che prestava le sue cure negli scenari di guerra senza distinguere tra Paese e Paese o tra “amici” e “nemici”. E niente: quanta strada da fare per raggiungere Strada, sarebbe ora di mettersi in cammino. Estremi della pubblicazione The Care Collective, Manifesto della cura. Per una politica dell’interdipendenza, traduzione: Marie Moïse, Gaia Benzi, prefazione: Sara R. Farris, postfazione: Jennifer Guerra, Roma, Edizioni Alegre, 2021, pp. 124. Ultimo aggiornamento il 14 Settembre 2021 da Simona Navigazione articoli PRECEDENTE Articolo precedente:San Marino, una persona con sindrome di Down sul manifesto per il no all’aborto SUCCESSIVO Articolo successivo:Creata la piattaforma informatica del contrassegno unificato disabili europeo IN EVIDENZA C’è sempre una finestra da cui entra la vita Pubblicato il 5 Settembre 2021 da Simona IL NOSTRO RIFERIMENTO Convenzione ONU sui diritti delle persone con Disabilità AREE TEMATICHE Politiche per la disabilità Disabilità: dati e statistiche Diritti di cittadinanza Mobilità, ausili e autonomia Vita indipendente e non autosufficienza Durante e dopo di noi Donne con disabilità Lavoro di cura Progettazione inclusiva Lavoro Studio Tutela giuridica Informazione, formazione e comunicazione Salute Società Sport e tempo libero Opinioni Copyright © 2021 Informare un'H

lunedì 6 settembre 2021

Agricoltura sociale in Toscana

Esperienze di Agricoltura Sociale in Toscana di sluschi Non si tratta solo di favorire l’inserimento lavorativo ma di sostenere la crescita delle persone. L’ Agricoltura sociale è uno strumento che va difeso in termini di welfare, innovazione sociale e di beneficio per la società civile intera. "Ognuno traffica con il suo talento, ognuno fa fiorire le sue risorse". La vulnerabilità è una condizione umana, ognuno di noi porta dentro di sé una ferita e se accolta rende esperienze nutritive per tutti e ci aiuta a stare al mondo. È necessario porre l’accento sulle risorse e non sulla fragilità, ognuno può portare qualcosa di prezioso per l’altro L'esperienza di Calafata È il 2011 e CALAFATA nasce da una sfida che è già raccolta nel suo nome. La parola infatti deriva da un termine marinaro, che indica un tipo di stuccatura degli antichi scafi delle navi in legno, che così potevano di nuovo navigare con una seconda vita dalla loro parte. Calafata nasce dall’incrocio di diversi bisogni del territorio: da una parte, la richiesta di aiuto di una persona che non riusciva più a gestire il vigneto di famiglia ubicato nella zona di pregio della Maolina, sulle colline lucchesi; dall’altra, Caritas Lucca che intercettava dai propri centri di ascolto una crescente fragilità sul territorio legata alla mancanza di lavoro. Le attività di Calafata consentono di ampliare il tipo di lavoro classicamente svolto dalle cooperative sociali, includendo nei programmi e nelle attività non soltanto persone fragili provenienti da programmi terapeutici di salute mentale, da dipendenze da gioco, stupefacenti o alcool, dal carcere, invalidi civili ma anche chi affronta altri tipi di disagio come il contesto attuale sempre più sottolinea. Vino, olio, verdure e frutta da campo nei 10 ettari di terreno recuperati dal rischio dell’incuria con metodi biologici e biodinamici sono il centro operoso di Calafata che lavora anche con G.a.s (Gruppi di acquisto solidale), mercati contadini, che permettono di realizzare il maggior numero di inserimenti lavorativi provenienti da categorie protette grazie alla continuità stagionale, nonché svolgendo servizi di manodopera specializzata per potature, legature, raccolte e confezionamenti, tagli erba e manutenzioni varie. L'esperienza di Casa Ilaria La Fondazione Casa Ilaria nasce su iniziativa dell’Associazione Noi per l’Africa e il Mondo con lo scopo di tutelare la mission del progetto Casa Ilaria e con l’intento specifico di mantenere viva la memoria di Suor Ilaria Meoli, medico infettivologo in Africa attiva nella cooperazione internazionale. Il pensiero di Suor Ilaria e del suo spirito di servizio verso le persone più fragili ed emarginate è al centro della scelta che porta lo spazio di Casa Ilaria a diventare uno spazio di accoglienza e inserimento lavorativo e sociale per persone con disabilità sensoriale psichica e fisica, disagio mentale e svantaggio sociale. A Casa Ilaria si pratica agricoltura biologica sociale: una parte del terreno è destinato a seminativo e frutteto, una parte è stata destinata ad orto-giardino, che produce verdure di stagione certificate bio, coltivate e raccolte da persone in situazione di svantaggio o con disabilità sotto la guida di esperti del settore e volontari. L’orto-giardino è inspirato alla filosofia della coltivazione sinergica, costruito in modo circolare, completamente accessibile. Dall’orto al frutteto, i progetti di Casa Ilaria si allargano anche alla ristorazione con “Ristor-Azioni” percorso formativo per l’inserimento occupazionale e lavorativo di persone adolescenti e giovani adulte con sindrome dello spettro autistico e un buon funzionamento generale, che risponde al loro bisogno di integrazione sociale, nella prospettiva della costruzione di un progetto di vita che ne valorizzi le potenzialità e le capacità di autonomia. In attesa del completamento della costruzione di Casa Ilaria, del suo ristorante e delle sue strutture di accoglienza, Ristor-Azioni si realizza presso il Ristorante Il Cavatappi Wine Food di Calcinaia. Dalla ristorazione allo street food, durante la pandemia Casa Ilaria ha inaugurato anche “Agri social food”, prodotti a Km 0 con servizio a domicilio a bordo di un’ape. https://curaediversita.wordpress.com/2021/05/28/esperienze-di-agricoltura-sociale-in-toscana/

Toscana. Novità per i gravissimi

Toscana, nuove disposizioni per le persone con disabilità gravissime SIMONA 17 GIUGNO 2022 Nei giorni scorsi la Regione Toscana ha introd...